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Come lavorare meglio I rischi del quiet quitting e le azioni per evitarlo

Il mantra del “fare il minimo indispensabile sul posto di lavoro” si traduce in una graduale disaffezione dai valori aziendali. Questo atteggiamento è maggiormente diffuso nei contesti in cui i manager non sono in grado di conciliare gli obiettivi di business con le esigenze dei dipendenti

(Unsplash)

Tratto da Morning Future

Si chiama quiet quitting, traducibile come “licenziarsi in silenzio” o, più liberamente, “licenziarsi senza licenziarsi”. Il termine – che oramai spopola sui social network e in particolare su TikTok – fa riferimento a una tendenza diffusa trasversalmente tra lavoratori di diverse età, che porta a fare il minimo indispensabile sul posto di lavoro. Senza puntare alla performance, ma valorizzando la propria vita privata a scapito di quella professionale.

Un atteggiamento che descrive il desiderio di slegare l’ identità personale dalla carriera, rifiutandosi di mettere il lavoro al centro della propria vita. In pratica, ci si limita a svolgere soltanto le mansioni richieste. Né più, né meno.

Un approccio che però si traduce in una graduale disaffezione dal luogo di lavoro e dai valori aziendali, evitando comportamenti di semplice cooperazione spesso fondamentali in qualsiasi attività di gruppo.

Cosa c’è dietro il quiet quitting
Così come molti altri fenomeni social che fanno emergere una problematica o un malessere sociale, anche quello del quiet quitting non è nulla di realmente nuovo. Come spiega il professor Giuseppe Santisi, ordinario di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni all’Università di Catania, «sempre più spesso ci accorgiamo che comportamenti del tutto ordinari della nostra quotidianità vengono enfatizzati al punto da presentarsi come “straordinari”, se non “disfunzionali”, generando, molto spesso, etichette e brand comportamentali».

Questo non significa, però, che ciò di cui parliamo siano solamente parole vuote, senza una reale correlazione con la realtà. Tutt’altro. «Gli scenari organizzativi sono stati da sempre caratterizzati da lavoratori engaged (impegnati) e lavoratori disengaged (disimpegnati)», continua il professore. «Ritengo che il vero nodo della diffusione del termine quiet quitting risieda negli effetti che la pandemia ha avuto nella riorganizzazione e conciliazione dei tempi di vita con i tempi di lavoro, dunque con tutto il dibattito sugli strumenti di work-life balance».

Questa dinamica sociale è quindi legata alla ricerca di benessere e di equilibrio e al contrasto del burnout da eccesso di lavoro. Il fatto che se ne parli proprio in questo periodo, successivo alla pandemia, fa pensare che non sia così scollegato dal sistema di valori che ha portato all’aumento delle dimissioni.

«Dagli ultimi dati pubblicati dalle agenzie internazionali che studiano il fenomeno, il trend delle dimissioni dal posto di lavoro è dal 2021 in costante crescita. E tale tendenza si manifesta in maniera chiara anche in Italia e soprattutto per i lavoratori del settore privato», conferma il professore.

Secondo Santisi, l’elemento più interessante su cui riflettere è che «il 40% dei giovani lavoratori che abbandonano il posto di lavoro lo fa senza aver ricevuto alcuna altra offerta. Quale motivo spinge verso questa soluzione? Sicuramente dal punto di vista organizzativo, la ricerca di realtà lavorative più flessibili e più motivanti. Dal punto di vista personale, e dunque del benessere desiderato, la voglia di maggiore equilibrio tra tempi di vita e tempi di lavoro e le chance di crescita professionale».

In seguito alla pandemia di Covid-19, sono cambiate le priorità delle persone e il benessere mentale e l’equilibrio tra vita privata e lavorativa ha assunto un ruolo sempre maggiore. La progressiva mancanza di una soluzione di continuità tra tempi privati e tempi di lavoro è un aspetto su cui sin dall’inizio la psicologia del lavoro ha lanciato un allarme. «Isolamento, iper-assorbimento nei ritmi di lavoro, contatti sociali mediati dal pc, a lungo andare hanno portato i lavoratori, a qualunque titolo, a un sovraccarico cognitivo ed emotivo estremamente critico», dice Santisi. «Il fattore positivo della potenziale flessibilità dei tempi gestiti dal lavoro in remoto si è tradotto in molti casi in una assoluta incapacità d’implementarlo in forma sostenibile».

Il ruolo chiave dei manager
Da un’indagine pubblicata sulla Harvard Business Review condotta su quasi tremila manager, è emerso però che la volontà dei dipendenti di fare il minimo indispensabile è maggiormente diffusa in quei contesti in cui i manager non sono in grado di conciliare gli obiettivi di business con le esigenze e le priorità di vita dei dipendenti. È invece molto meno presente nelle realtà lavorative dove c’è più empatia e complicità tra manager e dipendenti.

È indubbio quindi che le organizzazioni che desiderano raggiungere maggiori livelli di engagement (e conseguentemente un aumento della produttività) debbano trovare delle soluzioni, senza pesare sul benessere del proprio personale.

Quali possono essere, allora, le direzioni di azione da seguire per evitare che situazioni diffuse di quiet quitting impattino gravemente su performance, dinamiche di lavoro e coesione sociale nel proprio team?

Secondo il professor Santisi, «c’è una regola ferrea che da decenni influenza le analisi di matrice psicosociale dei comportamenti lavorativi: la soddisfazione o l’insoddisfazione lavorativa è frutto di un bilanciamento tra richieste che l’organizzazione rivolge ai lavoratori e risorse che mette loro a disposizione. Maggiore è l’equilibrio assicurato, minore è la probabilità che il lavoratore manifesti insoddisfazione. Il lavoratore engaged è quello che percepisce tale equilibrio».

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