Tra le infinite ragioni per struggersi di nostalgia ripensando agli anni Novanta, c’è il Bagaglino. Assorbiva tutto il demi-monde che ora tocca spargere in giro per reality e talent (cioè: per programmi che sostituiscono quelli in cui si esibivano i professionisti), e fungeva da ammortizzatore sociale.
Sul Bagaglino (e sulla settimana di Sanremo) si riversavano le quote di sosia che una società sana può sopportare. Il sosia di Andreotti al Bagaglino, la sosia di Liz Taylor a Sanremo. Eravamo un paese felice, e non lo sapevamo.
Erano anche gli anni in cui l’intrattenimento più incomprensibile era il calcio. Noialtri sensati guardavamo quelli che si appassionavano al calcio e pensavamo: poverini. Pensavamo che mai ci sarebbe stato nulla di più fesso dentro allo schermo televisivo.
E non sapevamo che saremmo arrivati a questo secolo, quello in cui la politica è diventata avanspettacolo (ma non coi sosia: con quelli veri) e diretta televisiva perpetua, e al calcio si sono sostituite le serie televisive coi sosia. Cosa guardiamo, stasera? Una diretta da un qualche giuramento di governo non c’è? Allora una sosia di Diana Spencer? Un sosia di Francis Ford Coppola? Quale rifacimento della realtà con attori che riproducano la postura vista nei vecchi tg scegliamo per intrattenerci?
La quinta stagione di The Crown incomprensibilmente non va in onda su Rai 1, e magicamente viene presa sul serio: se hai una sceneggiatura più didascalica di quelle di Don Matteo, ma sei su Netflix, la critica compattamente ti ritiene tv di qualità. Sì, hai i sosia del Bagaglino e almeno un attore a puntata che riepiloga i fatti di cronaca dimodoché lo spettatore mediamente disinformato riesca a seguirti, ma, ehi, sei prestige tv.
D’altra parte, nell’epoca in cui nessuno osa dare al pubblico ciò che non sa ancora di volere, non si capisce perché proprio da Netflix ci dovremmo aspettare coraggio e altruismo e fantasia. Il suo pubblico è quello che ha scoperto due anni fa, con la stagione precedente di The Crown, com’era cominciata la vicenda matrimoniale di Diana Spencer, e si è riversato sull’Instagram di Carlo e Camilla a dire vergognatevi, cos’avete fatto alla povera Diana, per gli ultimi venticinque anni siamo stati distratti ma ora dovrete vedervela con la nostra indignazione.
Il suo pubblico è quello che non s’informa, non si accultura, al massimo s’istruisce, sempre a mezzo Netflix, piattaforma dai cui sosia o materiali d’archivio apprende che negli anni Ottanta in Italia ci si faceva parecchio di eroina, o che è sparita una certa Emanuela Orlandi: con un pubblico così, dareste i fatti storici della casa regnante d’Inghilterra per scontati?
Per chi c’era, e i fatti li sa, questa è la stagione più noiosa di The Crown: abbiamo visto gli originali, che ce ne facciamo delle copie a buon mercato? Eravamo davanti ai telegiornali quando Diana ha detto che erano in tre in quel matrimonio – col tono con cui l’avrebbe detto una servetta di paese che pensava un matrimonio reale fosse una roba d’innamoramento e fedeltà – cosa ce ne facciamo della povera attrice che cerca di rifare uguale quello sguardo da sotto in su?
Diventa interessante solo quando sembra essere un gigantesco pizzino, una metafora d’altri temi e personaggi, un’allegoria d’un po’ tutto, persino della politica italiana.
Andrea che, per dire agli spettatori quel che non sanno, rimprovera alla madre il di lei entusiasmo per il di lui matrimonio con Sarah Ferguson, dicendo qualcosa come: noi pensiamo sempre di rivitalizzarci facendo entrare in famiglia gente che con noi non c’entra niente, pensiamo che ci daranno nuova linfa, e poi li trituriamo – sì, quello lì è indubbiamente un editoriale su Meghan Markle, ma forse anche su Elly Schlein, ma forse anche sulla figura ciclica dell’outsider che viene illuso di poter diventare insider.
Tema ricorrente nei partiti di sinistra: c’era ancora l’Ulivo, niente meno, era il 1997, pochi mesi dopo sarebbe morta Diana Spencer, e a un congresso del Pds una ragazzina si alzò a spiegare lei a D’Alema cos’avrebbe dovuto fare il partito, non so neanche se fosse la prima ma è la prima ch’io ricordi, poi sarebbero venute tutte le Serracchiani e i Civati passati da bambini che urlano che il re è nudo a giovani dirigenti senili integrati nel sistema più di quanto sarebbe mai riuscito a Sarah Ferguson.
E tema ricorrente in questa stagione di The Crown (nella mezza che ho guardato prima di decidere che non potevo sacrificarmi troppo per voi). L’outsider che fortissimamente vuole divenire insider è Mohamed Al-Fayed: disposto a tutto per essere accreditato a corte, assume l’ex cameriere di Edoardo e Wallis Simpson, che ovviamente è molto più d’un cameriere, è il segreto per sembrare un signore e non un rampicante, è la chiave per arrivare alla famiglia reale, è un consigliori (è Bettini?).
E Carlo che convoca John Major e gli dice che insomma, il complesso della regina Vittoria, che non lasciava il trono al figlio tarpandogli le ali, mica può produrre nuove storture, è chiaro che lui è pronto a regnare, è chiaro che tocca a lui, è chiaro che – se chiudi gli occhi, vedi trent’anni di dibattiti sul ricambio generazionale a sinistra. Il più puro che ti epura è diventato il più fresco che ti rottama – ma non a Buckingham Palace.
Fa un po’ tenerezza guardare il Carlo d’allora, che a noialtre spettatrici del suo matrimonio pareva già vecchissimo, e invece aveva neanche 33 anni quando sposò Diana, e 43 quando convocò Major sperando di poter tramare per far abdicare la madre. Fa un po’ di tenerezza sapere che il porello dovrà fare altri trent’anni d’anticamera, sempre convinto che sarebbe un sovrano migliore, che sia ingiusto che la madre non usufruisca di quota cento, e che quella non sia una monarchia per giovani.
Te lo vedi, Carlo, che all’età di Di Maio si preparava a quarant’anni d’apprendistato, che dopo decenni di militanza ambientalista non è stato filato un decimo di Greta Thurnberg, te lo vedi che a un certo punto smette di pensare sia una questione anagrafica, e importa in Inghilterra la grande italianità. No, non i sosia del Bagaglino: la scusa del «non c’è meritocrazia».