«Questo non è fair play». E come lo vogliamo chiamare quel momento di pura follia, di eversione dal protocollo di incravattate autorità del calcio ed eleganti emiri durante la premiazione della Finale dei Mondiali? Damián Emiliano Martínez Romero, detto “El Dibu”, eroe dell’Argentina Campione, che con una parata già storica ha salvato l’Albiceleste da un tracollo quasi certo ai supplementari e che ha pensato bene, dopo aver ritirato il premio di Miglior Portiere della competizione, di afferrare il guanto dorato e di ghermirlo come un membro sessuale maschile. In mondovisione. Per Alberto Rimedio, voce della telecronaca della partita di Rai 1, «questo non è fair play». E come lo vogliamo chiamare? Certo bassezza, sconcezza, maleducazione, rozzezza. Giusto: il punto però è che il Mondiale in Qatar ha riportato un po’ tutti sul pianeta Terra, ha mostrato che la realtà si mostra per quel che è. Non come la vorremmo, neanche come ce la raccontiamo. Quella che è.
Quello che è il calcio, insomma: non il calderone di “respect”, di buoni propositi e slogan, de «l’importante è partecipare», di «lo sport insegna i valori autentici della vita». Si è letto e scritto già di come l’avvicinamento al torneo in Qatar fosse stato diverso rispetto agli altri. Per la miriade di contraddizioni, le inchieste e i reportage sulle condizioni e le morti dei lavoratori che hanno costruito gli stadi all’avanguardia che saranno in parte smantellati, le parole e le linee guida altrettanto sbalorditive su diritti umani e comunità Lgbtquia+ di emissari e autorità locali. Decisione sorprendente e discussa fin dal primo momento per uno Stato poco più grande dell’Abruzzo, dove non esistono elezioni e partiti, dove la Giustizia è amministrata secondo la legge islamica, dove l’omosessualità è illegale. Dove però ci sono enormi giacimenti di petrolio e di gas naturale.
Di corruzione si era parlato da subito dopo la nomina del Paese ospitante, le inchieste e i dossier si sono moltiplicati negli anni, eppure nulla ha potuto impedire alla manifestazione di andare in scena e al Qatar di portare a casa la sua operazione di soft power. Sarà la storia a decidere se riuscita o meno. La strategia “Qatar National Vision 2030” intanto ha avuto la sua vetrina più luminosa – e questa è già una vittoria di Doha.
Agli spettatori la scelta di sfruttare o meno quella lezione di storia e geografia che possono essere i Mondiali. Chi era completamente a digiuno poteva scoprire come Doha in politica estera faccia un po’ di tutto: mantiene rapporti sia con l’Iran sia con l’Arabia Saudita, ha ospitato i colloqui che hanno deciso il ritiro dall’Afghanistan degli americani e il ritorno al potere dei talebani, si allinea spesso e volentieri a quel battitore libero che è la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan.
Per ironia della sorte, la finale andata in scena al Lusail Stadium è stata la più spettacolare degli ultimi anni, per alcuni la più bella di sempre, per altri ancora addirittura la “partita del secolo”. Uno spot insomma. È stata la versione calcistica del Rumble in the Jungle: il più grande incontro di boxe del Novecento, forse della storia, tra Muhammad Ali e George Foreman nello Zaire del dittatore Mobutu Sese Seko. Senza tralasciare che con il Qatar fu nominata la Russia come Paese ospitante dei Mondiali del 2018, giocati quattro anni l’invasione della Crimea e l’inizio delle ostilità in Donbas. A volte è proprio lo sport che cerca questi spazi, certi contesti, le possibilità migliori – almeno da un punto di vista economico, certo.
Il calcio, come ogni sport, può essere una scuola di valori, occasione di incontro e formazione. E allo stesso modo sa essere quanto di più lontano da tutto questo, e dai buoni sentimenti. Anche in campo, anche per i comportamenti dei suoi eroi. Dibu Martinez ha ballato come Checco Zalone, si è preso gioco degli avversari, li ha innervositi e provocati per un Mondiale intero. E nel momento più alto – non del torneo, ma della sua carriera – non è riuscito a pensare ad altro che a portare le mani in mezzo alle gambe e a mimare un fallo. Bonjour finesse. Non è anche questo il calcio di strada? Quello delle scorrettezze, degli insulti, delle minacce, delle volgarità anche quando si è piccoli e ingenui e forse per questo anche più stronzi? O è solo quello della retorica della favela, del dribbling innato e della giocata nel barrio, di quello che ci piace insomma?
Il centrocampista argentino Rodrigo De Paul a fine partita, dopo la vittoria, ha deciso di dedicare un pensiero a tutti quelli che lo avevano criticato: li ha invitati a osservare un’attenzione orale al suo membro. Per giorni durante i Mondiali si era dibattuto sulla fotografia degli stessi argentini che esultavano in faccia agli olandesi dopo il passaggio del turno ai rigori ai quarti di finale. Che scorrettezza, che anti-sportività. Era partito perfino il concorso di colpa: avevano cominciato prima quelli, anzi no quegli altri. E lo stesso è successo dopo la fotografia di Mbappé che esultava al rigore sbagliato dall’Inghilterra. Che scandalo: per chi si era distratto a quella partita di bassa categoria, a quel calcetto tra conoscenti, a quel torneo di ragazzini con genitori mitomani e montati più dei figli.
L’agonismo può alzare la tensione a dismisura, cacciare il peggio perfino da atleti abituati allo stress ai massimi livelli. Il calcio può risvegliare una tossicità che si rivela sempre più dura a morire di un cattivo dei supereroi, altro che calciatori-modello. Che ci piacerebbe vedere altro è un conto, che non si facciano i conti con quello che c’è è piuttosto ingenuo. Non la risolverà la sola indignazione. A vincere il Premio Fair Play in Qatar intanto è stata l’Inghilterra: la squadra che si è inginocchiata per il Black Lives Matter contro il Senegal, un’altra foto della manifestazione diventata virale.