Al rigore di Montiel ha esultato tutta l’Argentina, tutti i tifosi, i giocatori in campo, la panchina intera, mentre il ct Lionel Scaloni attraversava lo stadio per salutare la famiglia in tribuna. Nell’esultanza, mentre i giocatori della Francia guardavano nel vuoto cercando di consolarsi, quelli dell’Argentina erano in lacrime, si cercavano e si abbracciavano, piangevano tutti. Tutti tranne uno. Lionel Messi non piangeva. Sembrava più travolto da una felicità primordiale che somiglia a una liberazione: è la vittoria più cercata, più voluta, più attesa. L’unica che ancora mancava. La perfetta chiusura del cerchio.
La finale era stata presentata come la partita che avrebbe consegnato all’eternità Leo Messi in caso di successo, il capitolo finale dell’interminabile dibattito su chi sia il Goat – Greatest Of All Time –, il più grande di tutti i tempi. La sua risposta in campo sta in una prestazione in cui è sembrato levitare alcuni centimetri sul prato del Lusail Stadium per almeno un’ora, sta in quei tocchi di prima con cui organizzava i compagni e prendeva in controtempo il pressing francese, sta nei due rigori – uno in partita e uno nella lotteria finale – battuti con la fiducia di chi non può sbagliare.
Eppure non ce ne sarebbe stato bisogno, Messi non aveva bisogno di questa vittoria per essere il migliore. Se la partita fosse finita diversamente, se avesse vinto la Francia, se l’Argentina avesse perso ancora una volta in finale, Messi sarebbe ugualmente il campione immortale che è stato negli ultimi quindici anni.
Una competizione di sette partite, disputata ogni quattro anni, episodica come solo i tornei a eliminazione diretta sanno essere, non può bastare a mettere in una prospettiva diversa l’intero arco narrativo di un talento generazionale. Sarebbe un cortocircuito logico inaccettabile.
È un equivoco costruito negli anni attorno a un calciatore premiato a ripetizione dal campo e dalla critica, ma costretto a vivere un eterno confronto con altri campioni: il confronto contemporaneo, sanguigno, stellare con Cristiano Ronaldo, a chi fa più gol, vince più Palloni d’Oro, più Champions League, e il confronto ancora più pesante con un fantasma del passato, con l’astrazione di Diego Armando Maradona e del suo ricordo, soprattutto del suo titolo mondiale del 1986.
Per anni l’Argentina ha rinfacciato alla Pulce di essere andato via di casa troppo presto, troppo piccolo, troppo poco argentino forse. Così le sconfitte dell’Albiceleste diventavano le sconfitte di Messi come per metonimia, una scusa per giustificare le delusioni di una nazione mentre Messi con il Barcellona faceva razzie di titoli.
L’estate scorsa Leo è riuscito a battere un colpo vincendo la Copa América al Maracanã. Adesso, in Qatar, ha definitivamente rotto la maledizione, ha cancellato ogni velleità di critica, non può esserci più niente sopra di lui.
C’è stato un momento, subito dopo il gol del 3-2 che sembrava aver deciso la partita, in cui Messi ha aizzato i tifosi argentini lanciando le braccia al cielo, vestendosi da capo popolo, líder máximo, caudillo. In quel momento Messi è andato oltre se stesso. Non aveva mai chiesto di diventare il salvatore della patria né una guida suprema. Anzi, il suo talento è sempre sembrato fare a pugni con un carattere tranquillo, timido, introverso. Negli anni il confronto con Maradona è stato viziato da un’epica che Diego sobillava anche con la politica – la vittoria uno contro tutti con l’Inghilterra ai Mondiali del 1986 avrebbe avuto lo stesso impatto senza lo scontro per le Falkland/Malvinas sullo sfondo? – mentre Messi la appiattiva sul campo mentre sfondava le difese avversarie, dall’Elche al Real Madrid, in Spagna come in Europa, con la monotonia e la semplicità di chi vince per manifesta superiorità.
Il calcio non avrebbe gli strumenti per individuare il più forte di tutti senza ricorrere almeno a un pizzico di soggettività contestabile, non ci sono parametri universali per giudicare giocatori contemporanei, come lo sono Leo Messi e Cristiano Ronaldo, figuriamoci se si può stabilire il più forte tra giocatori di epoche diverse, le cui carriere sono determinate da metodi di allenamento, stili di gioco, contesti tattici e tecnici non paragonabili. Il calcio di oggi sembra già molto diverso da quello degli anni Duemila; quello degli anni Ottanta di Maradona sembra Medioevo, l’epoca di Pelé che vince i Mondiali da teenager e poi non ancora trentenne è preistoria.
Per anni Messi è riuscito a imporre il contesto di gioco in ogni partita, a essere un sistema a sé stante attorno a cui far ruotare tutto il resto, indipendentemente da chi ci fosse nei paraggi, avversari e compagni. Al Barça ha condiviso l’attacco con Ronaldinho, Eto’o, Henry, Suarez, Neymar, Ibrahimovic, Griezmann, Dembélé: è sempre stato il centro del mondo delle sue squadre da quando è stato in grado di reggerne il peso. E lo è ancora oggi. In questo mese in Qatar, Messi ha dominato in modo diverso rispetto a inizio carriera, o come avrebbe fatto anche solo cinque o sei anni fa: stavolta ha dovuto fare ricorso più spesso all’arte dell’inganno e della pausa per compensare quel che il fisico non può più concedergli in termini di esplosività e resistenza.
In questo Mondiale è racchiuso il senso della sua straordinaria longevità, che gli permette a 35 anni di essere ancora il giocatore più decisivo del mondo nonostante l’usura e gli evidenti segni del tempo sul suo gioco. Bisognerà aspettare forse il suo ritiro per mettere nella giusta prospettiva tutti i record, i primati e le vittorie della sua carriera.
Ci si dimentica troppo facilmente che nel 2009 ha vinto la sua prima Champions League da protagonista assoluto con il Barcellona, e ancora nel 2018/19 ha chiuso la Liga spagnola con trentasei gol e quattordici assist in trentaquattro partite, più dodici gol e tre assist in dieci partite di Champions League. In mezzo ci sono altri innumerevoli momenti e periodi di onnipotenza senza senso: nel 2012 la Pulce ha superato il record di gol realizzati in un anno solare, tra Barcellona e Argentina, frantumando il primato detenuto da Gerd Müller.
Per Messi quello che potrebbe essere il picco, il prime della carriera di un campione, è un plateau che attraversa tre decenni e si decora di titoli e trofei stagione dopo stagione. La vittoria di oggi dovrebbe suggerire che Messi non solo non è paragonabile ai campioni del passato, ma in ogni discussione su chi sia il più grande di tutti i tempi dovrebbe partire almeno con il vantaggio di una carriera impareggiabile.