Veniamo da tempi difficili per chi insegue il futuro e cerca di anticiparne le mosse: la pandemia, il tramonto dei social-network-per-come-li-abbiamo-conosciuti, le fake news, l’ascesa dell’alieno TikTok, hanno riempito le pagine tecnologiche di un tono plumbeo. Il futuro sembrava finito, o in via di esaurimento, anche perché i pochi argomenti che sembravano elettrizzare gli appassionati di disruption – parola quanto mai abusata, buona per una slide di PowerPoint – si sono rilevati essere fuffa, o poco più.
Parliamo del crypto – un settore attualmente in fase di implosione, con buchi da innumerevoli miliardi di dollari – e il metaverso, l’improbabile “pivot” deciso da Mark Zuckerberg, forse in anticipo di una decina d’anni rispetto le possibilità tecnologiche. Ecco, per parecchi anni abbiamo inseguito queste scie convincendoci che ci avrebbero condotto nel futuro, nel domani. Ma c’è una cosa che tendiamo sempre a dimenticarci, sul domani. Una cosa banale, forse, ma come tutte le banalità ha il vizio di funzionare: il futuro arriva da dove meno te l’aspetti. E ha la forma che meno ci aspettiamo di vedere.
Ad esempio, può essere una strana macchina che impara a disegnare, o una chat in grado di rispondere a domande complesse o scrivere poesie. Lo scorso aprile OpenAI, azienda fondata da Sam Altman, imprenditore del settore tecnologico, ed Elon Musk, capo di Tesla e Twitter, ha presentato una nuova versione di DALL-E, un modello di linguaggio comunemente chiamata “intelligenza artificiale”, che era in grado di generare immagini sulla base di comandi testuali (detti prompt). Per qualche settimana, Twitter e gli altri social si sono riempiti pieni di assurde immagini accompagnate da altrettanto bislacchi prompt. Creazioni diverse, notevoli e sorprendenti, che sembravano dimostrare che qualcosa era cambiato: la prima intelligenza artificiale consumer era arrivata tra noi.
OpenAI è nata nel 2015 per risolvere uno dei tanti assilli dell’élite della Silicon Valley, un problema forse lontano da quello delle persone comuni ma non di meno pressante per certi miliardari: «E se perdessimo il controllo di un’intelligenza artificiale? E se una IA diventasse cattiva?» L’obiettivo dell’azienda, su cui molte personalità del settore (anche Reed Hastings di Netflix), hanno versato un cospicuo obolo, è quello di creare una IA amichevole, in grado di aiutare l’umanità senza avere la tentazione di trasformarci in graffette da ufficio.
Le prime avvisaglie della rivoluzione sono venute da GPT-3, un avanzatissimo modello in grado di generare testo comprensibile e stilisticamente interessante, sulla base di qualche input. Con DALL-E, la magia del GPT-3 veniva applicata alle immagini. Era solo l’inizio: dopo di questo sono arrivati altri prodotti simili, sviluppati da altre aziende, come MidJourney e Stable Diffusion, che hanno contribuito a democratizzare l’accesso alla tecnologia. Se OpenAI è solo su invito (e ha una lista d’attesa piuttosto lunga), accedere a MidJourney è invece facile, e basta avere un account su Discord per cominciare a scrivere prompt e vedere all’opera la tecnologia.
L’ultima magia di OpenAI, per ora, si chiama ChatGPT ed è quello che sembra dal suo nome: una chat. L’utente (umano) può interagire con la macchina, chiedendogli informazioni o di comporre poesie o di raccontargli la storia della Rivoluzione d’Ottobre. Ma anche di scrivere il codice di un plug-in per WordPress funzionante, per esempio, aggiungendo la professione del programmatore alla lunga lista di lavori messi a rischio dalle IA.
Non è chiaro cosa succederà, né quali saranno le reazioni del pubblico e delle grandi aziende. C’è chi sospetta che Google sceglierà di penalizzare i contenuti web prodotti dalle IA, cosa che ha già annunciato lo scorso aprile. Funzionerà? Ma soprattutto, basterà? Una marea simile non si può prevedere né tantomeno contenere con misure tradizionali. Certo, Google è estremamente potente ma è la stessa azienda che da anni investe nel settore delle IA e che sembra essere stata superata a destra da una realtà snella e piuttosto spregiudicata come OpenAI.
Oltre a produrre versetti pseudo-danteschi e paragrafi credibili, infatti, un servizio come ChatGPT funziona soprattutto come una macchina in grado di dare risposte a qualsiasi domanda. O quasi. Magari non è sempre corretta, certo, ma l’impressione è di parlare con una scatola magica e aliena proveniente dal futuro, ed è lo stesso effetto che deve aver fatto Google quando arrivò nel mercato: quella strana sensazione che si prova quando si è all’inizio di qualcosa di grande.