Da una Cop all’altraA Montréal i negoziati sulla biodiversità partiranno in salita

Spunti, riflessioni e perplessità in vista della Montréal Biodiversity Conference (7-19 dicembre), dove i leader dei Paesi ricchi dovranno guardarsi allo specchio e rendersi conto dei pochissimi passi avanti compiuti per proteggere (e ripristinare) la diversità biologica del nostro Pianeta

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Uno degli appelli che ho trovato di maggior senso in attesa della ventisettesima Conferenza delle parti sul clima – la Cop27 – proveniva dall’Unione internazionale delle superiore generali (Uisg), che rappresenta oltre seicentomila religiose che operano negli ambiti della salute, della lotta alla fame e dell’assistenza all’infanzia. 

«È necessario ascoltare con attenzione le voci di quanti sono stati colpiti dai disastri ambientali, sia per il riconoscimento della loro dignità di esseri umani sia, con un approccio pragmatico, per imparare dalla loro resilienza», recita la dichiarazione intitolata “Sisters for the Environment: Integrating Voices from the Margins”, che continua: «I più vulnerabili devono essere integrati come attori principali all’interno dei quadri istituzionali, assicurando che le loro voci siano centrali nel dialogo globale per il cambiamento e che non siano relegate a una advocacy periferica e isolata. In particolare, bisogna accogliere i suggerimenti delle comunità indigene per fermare o modificare i progetti che interessano le loro terre, e garantire che l’opinione esperta delle comunità sia parte degli sforzi per la mitigazione dei cambiamenti climatici e il crollo della biodiversità» 

Ulteriori due punti emergono come fondamentali nella dichiarazione delle religiose: «Agire velocemente per arrestare il crollo della biodiversità, assicurando che, entro il 2030, almeno metà della Terra e degli oceani diventino aree protette». Tuttavia, proprio natura e biodiversità, come abbiamo avuto modo di apprendere, sono state le grandi escluse dal documento finale della Cop27 nonostante di questi temi si fosse discusso molto.

Il 7 dicembre prossimo, però, si apriranno a Montréal sotto la presidenza della Cina i lavori di Cop15 della Convenzione sulla diversità biologica (Convention on biological diversity) delle Nazioni unite, che è l’equivalente per la biodiversità della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc). In Canada i leader mondiali si troveranno ad affrontare il compito fondamentale di creare una strategia per portare a compimento l’obiettivo “nature positive” entro il 2030: consiste non solo nel fermare la perdita di biodiversità, ma anche nel ripristinarla. 

Per la biodiversità sono pochissimi i passi compiuti nonostante, stando ai risultati della quattordicesima edizione del Living planet report del Wwf, dal 1970 al 2018 si sia registrato un calo medio del sessantanove per cento dell’abbondanza di specie selvatiche. Le peggiori tendenze sono state riscontrate in Sudamerica con un calo del novantaquattro per cento, seguite dal sessantasei per cento in Africa e dal cinquantacinque per cento in Asia-Pacifico. In Europa, Asia centrale e Nordamerica sono diminuite di circa il venti per cento. 

La situazione europea, secondo il rapporto Failing Nature: how life and biodiversity are destroyed in Europe diffuso durante Cop27 da Greenpeace, evidenzia diversi contesti nei quali i siti ambientali e le specie viventi sono minacciati di volta in volta dalla zootecnia, dall’agricoltura intensiva, dal prelievo forestale eccessivo, dall’elevata estrazione di risorse naturali o dalla pesca. Ma anche dall’edilizia e dalle infrastrutture. 

Solo per citare qualche esempio messo in luce dal report, la situazione è particolarmente critica per il sito del Lago di Neusiedl (tra l’Austria e l’Ungheria) che, pur essendo habitat di trecento specie di uccelli rari e una rotta apprezzata dai migratori, è messo a repentaglio delle infrastrutture turistiche. Ciononostante sia protetto da molti accordi internazionali e nazionali. 

Anche in Bulgaria, il Mar Nero e i suoi cetacei sono compromessi dalla pesca industriale con reti indiscriminate. In Danimarca la produzione zootecnica intensiva mette in pericolo la vita nell’Oceano. In Germania, il prelievo di legname mette a rischio le foreste di faggi. In Italia, l’agricoltura industriale con l’uso di pesticidi e la frammentazione degli habitat fanno parecchie vittime, tra cui le api. In Polonia, invece, piangono le importanti foreste dei Carpazi.

È un rapporto eloquente, questo di Greenpeace, dove viene messa al bando ogni ipocrisia politica e formulato l’invito ai governi europei ad abbandonare ogni alibi e, alla Cop15, di appoggiare «un accordo globale per proteggere almeno il trenta per cento del suolo e degli oceani entro il 2030». 

Tuttavia, ci sono alcune perplessità attorno a questo target: secondo una dichiarazione congiunta di alcune importanti Ong, tra cui Survival international e Amnesty international, «senza una seria revisione, il cosiddetto target 30×30 (trasformare il trenta per cento del pianeta in Aree Protette entro il 2030, ndr) distruggerà la vita di molti popoli indigeni». Nel documento si legge anche che questo sarà «profondamente devastante per i mezzi di sostentamento di altre comunità che usano la terra per la sussistenza, e allo stesso tempo distoglierà l’attenzione dalle vere cause del collasso della biodiversità e del clima». 

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