Il risultato finale della Cop27, che ha sforato i tempi ufficiali di circa trenta ore, si può riassumere semplicemente osservando i volti di due protagonisti della conferenza. Da una parte, il sorriso e la commozione del guineano Alpha Oumar Kaloga, capo dei negoziatori africani a Sharm el-Shekih. Dall’altra, l’amarezza del vicepresidente della Commissione europea, Frans Timmermans.
Partiamo dai lati positivi. Quella che doveva essere una Cop sotto tono e di transizione si è in realtà chiusa con la rottura di un tabù: il “Loss and damage”. Dopo una sfibrante plenaria notturna, è stato affinato e modellato l’accordo – raggiunto in realtà nella giornata di sabato 19 novembre – su un fondo a compensazione di perdite e danni da rendere operativo entro la Cop28 con l’assistenza di un “Comitato di transizione”, composto da quattordici Stati (su ventiquattro) del Sud del mondo.
Le risorse necessarie potrebbero aggirarsi sui trecento miliardi annui entro il 2030. Questo per dire che, in sostanza, i Paesi ricchi dovranno obbligatoriamente aprire il portafoglio per risarcire i Paesi più poveri, climaticamente più vulnerabili e danneggiati da una crisi – quella climatica – non creata da loro, ma dalle economie più floride che continuano a spremere il Pianeta in modo innaturale.
A livello di giustizia climatica è una vittoria che non dobbiamo aver paura a definire storica, termine spesso abusato ma, in questo caso, estremamente calzante. È un successo per gli Stati dell’Oceania minacciati dall’innalzamento del livello degli oceani; per gli Stati africani devastati dalla siccità e dalla desertificazione; per gli Stati asiatici o sudamericani alle prese con uragani e altri eventi climatici estremi.
«Abbiamo aspettato trent’anni, ma il giorno è arrivato. È un momento unico ed emozionante», ha scritto su Twitter Alpha Oumar Kaloga, consapevole che Paesi come la Guinea non potevano più farcela da soli. Perché la crisi climatica è già qui e non possiamo più fermarla: è giunto il momento di adattarsi, conviverci e finanziare la ricostruzione di coloro che ne subiscono maggiormente gli effetti. Di tempo ne abbiamo perso fin troppo.
30 years of patience. The day has arrived. It is done. YES a new Fund for responding Loss and Damage in developing countries….This is a unique moment a win for all citizens of the world. Head of Delegation have agreed… pic.twitter.com/OZMpfYLdCo
— Alpha Kaloga (@KalogaAlpha) November 19, 2022
Per raggiungere questo accordo, però, sono stati fatti dei compromessi preoccupanti dal punto di vista della mitigazione climatica, dedicata alle azioni per prevenire e ridurre le emissioni antropiche di gas climalteranti (che causano il riscaldamento globale). E qui ha inciso anche la pressione dell’Egitto, che ha cercato in tutti i modi di mettere i bastoni tra le ruote delle proposte serie, strutturate e drastiche (nel senso positivo del termine) sull’abbandono delle fonti fossili.
Ecco spiegata la delusione di Timmermans: assieme al fondo del “Loss and damage”, l’Unione europea – che alle Cop negozia come blocco unico – voleva portarsi dietro una serie di garanzie e di migliorie per raggiungere gli obiettivi di mitigazione e restare in linea con i target dell’accordo di Parigi. Invece, da questo punto di vista, è stato fatto il minimo indispensabile.
L’obiettivo di mantenere il riscaldamento globale a +1,5°C rispetto ai livelli pre-industriali è stato fortunatamente confermato (contrariamente ai rumors dei giorni passati), così come i principali paletti imposti l’anno scorso alla Cop26 di Glasgow. Nel testo finale, però, non c’è alcun riferimento al picco delle emissioni globali entro il 2025 e al phase-down – proposto dall’India – di tutte le fonti fossili. Rimane, in sostanza, quanto deciso nel 2021 in Scozia: bisogna abbandonare gradualmente il carbone e rinunciare ai sussidi fossili «inefficienti».
«Quello che abbiamo di fronte non è un passo avanti sufficiente per le persone e per il pianeta. Non comporta sufficienti sforzi aggiuntivi da parte dei principali emettitori per aumentare e accelerare i tagli alle emissioni», ha detto il vicepresidente della Commissione europea, che è stato comunque decisivo al fine di sbloccare i negoziati e convincere gli Stati più reticenti al “Loss and damage” (come Usa e Cina).
Nell’accordo finale, addirittura, si nota un inquietante riferimento alle energie «a basse emissioni», palesemente inserito per lasciare una finestra aperta al gas. Menzionare queste fonti energetiche non pulite, affiancandole alla rinnovabili nella stessa frase, è pericoloso, confusionario e ambiguo. E testimonia una triste realtà, che un anno fa nessuno aveva preventivato: la crisi energetica – scatenata dall’invasione russa in Ucraina – ha completamente cambiato le carte in tavola, segnando il definitivo ritorno dei combustibili fossili. E il possibile fallimento della transizione energetica per come l’avevamo immaginata.
Nell’ultimo anno, tra centrali elettriche o a carbone e terminali per l’esportazione del gas, nel mondo sono ripartiti circa ottanta progetti dedicati ai combustibili fossili. Secondo le previsioni di Rystad energy, nel 2024 gli investimenti in nuove infrastrutture per il gas toccheranno quota quarantadue miliardi: un incremento del cinquanta per cento rispetto al 2022. E poi c’è l’Italia, con il governo Meloni che ha sbloccato le trivelle nel Mediterraneo.
Dalla Cop27 non è emerso uno schema sostenibile, equo ed efficace per guidare il mondo nel processo di abbandono delle fonti di energia dannose per il clima. Questo perché, diciamola tutta, le economie sviluppate non hanno realmente intenzione di dire addio a queste soluzioni apparentemente più comode e rapide: la crisi energetica ha evidenziato la nostra inadeguatezza nel favorire la crescita rinnovabile, che non ha solo benefici ambientali ma anche economici e sociali. Una inadeguatezza messa nero su bianco al termine dei negoziati di Sharm el-Sheikh.
Alla Cop27, inoltre, non è stato raggiunto l’obiettivo di mobilitare i famosi cento miliardi annui per la finanza climatica, che dovrebbe inglobare una serie di investimenti in progetti, infrastrutture e iniziative per limitare i danni del riscaldamento globale. Andando avanti, nel testo finale non si fa riferimento al raddoppio dei fondi per l’adattamento al cambiamento climatico promesso alla Cop26. Così come non esiste una sezione dedicata alla biodiversità, che avrebbe potuto dare una spinta coraggiosa ai negoziati di Montréal (dal 7 al 19 dicembre ci sarà la Cop15 dedicata alla biodiversità).
Del resto, cosa potevamo aspettarci da una Cop che ha visto la partecipazione di 636 lobbisti dei combustibili fossili? Erano circa cento in più rispetto alla Cop26, e si sono rivelati più numerosi rispetto al totale dei delegati di Porto Rico, Myanmar, Haiti, Filippine, Mozambico, Bahamas, Bangladesh, Pakistan, Thailandia e Nepal (tra i dieci Paesi più colpiti dalla crisi climatica). Ricordiamo inoltre che diciotto dei venti sponsor della Conferenza hanno stretti legami con l’industria fossile.
È stata una Cop che, nella prima settimana abbondante, è parsa una passerella per i leader globali e le loro dichiarazioni spesso vuote, banali e ripetitive (e, intanto, i negoziati erano in stallo). Una Cop deludente in termini di rispetto dei diritti umani e civili (non è stato liberato l’attivista Alaa Abdel Fattah e la società civile ha avuto pochissimo spazio per alzare la voce), di parità di genere e – conseguentemente – di credibilità internazionale. E una Cop in cui il governo italiano non si è certo distinto per ambizione e qualità delle proposte.
Bene, benissimo l’accordo sul “Loss and damage”. Ma, considerando la portata, la gravità e la pervasività della crisi climatica, è troppo poco per festeggiare. Il compromesso è un elemento fondamentale all’interno di negoziati così intricati, ma a tutto c’è un limite. Conferenze come le Cop hanno concretamente la possibilità di ridisegnare il futuro, di riscrivere la storia: non sfruttarle con sapienza (e urgenza) significa perdere l’ennesima occasione per affrontare la grande emergenza del nostro tempo.