Scompenso generazionale Perché i giovani che si suicidano continuano ad aumentare (in Italia e nel mondo)

Secondo i dati del Bambin Gesù, negli ultimi due anni le richieste d’aiuto si sono quadruplicate rispetto al 2019. Si tratta di «una pandemia nella pandemia», togliersi la vita è diventata la seconda causa di morte tra i ragazzi

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Basta una breve ricerca sul web e ci si accorge che a proposito di giovani e suicidio è scoppiata una vera e propria bolla di allarme. Solo negli ultimi mesi, decine di giornali hanno titolato articoli a tinte fosche riguardanti un aumento del 75% dei tentativi di suicidio tra i giovanissimi. Secondo l’ultimo report dell’Osservatorio suicidi della Fondazione Brf – Istituto per la ricerca in psichiatria e neuroscienze, all’interno della fascia d’età adolescenziale si verifica un caso di tentato suicidio al giorno.

I dati sembrano essere impazziti a seguito del Covid e sono stati confermati dall’ospedale pediatrico Bambin Gesù di Roma, le cui statistiche riportano circa 464 accessi al pronto soccorso tra il 2018 e il 2019 ed esattamente 752 nei due anni successivi. «Si è spesso parlato di pandemia nella pandemia», afferma Gianluigi Di Cesare, psichiatra e referente di tutto il territorio dell’ASL di Roma 1 per i ragazzi tra i quattordici e i venticinque anni. «Eppure, nel Pnrr non si fa menzione alla salute mentale dei giovani. Non una parola, non un investimento».

Che un periodo prolungato di restrizioni massicce volte a contrarre ogni forma di socialità avrebbe avuto effetti disastrosi sui giovani, si è tentato di farlo presente fin dall’inizio. Ora ci troviamo di fronte all’ennesima emergenza senza che si abbiano gli strumenti per contenerla né tantomeno per interpretarla. Considerando che il suicidio è ormai la seconda causa di morte tra i ragazzi, non soltanto in Italia ma in tutta Europa, la questione va affrontata da una prospettiva generazionale. Come sostengono diversi esperti, infatti, il Covid non è stato altro che un paravento collettivo, utilizzato per slatentizzare sintomi e sindromi già presenti all’interno del vissuto psichico della persona (ne abbiamo parlato qui). Perciò, la domanda che sorge spontanea è: cosa rende gli adolescenti contemporanei disperati a tal punto da togliersi la vita?

«Analizzando il nostro campione, che è piuttosto esteso, i ragazzi più propensi alle ideazioni suicidarie sono in genere figli unici», spiega Di Cesare. «Hanno alle spalle famiglie claustrofiliche, famiglie all’interno delle quali si svolgono tutti gli scambi e tutti gli affetti. L’alterità viene inglobata lì. Si è abitati dal desiderio del padre e della madre». Si viene perciò a creare un’inquietante collusione: se il figlio è felice, significa che dall’altra parte vi è un buon genitore. Quest’ultimo tira un sospiro di sollievo, si sente giustificato nella sua funzione e premiato dei propri sforzi. Il figlio è interdetto della possibilità di deludere questa richiesta implicita di conferme. Una angoscia simile si trasforma facilmente in una poderosa fragilità interna, per cui a fronte di frustrazioni infinitesimali l’intero sé crolla, si sbriciola. È sufficiente un’interrogazione andata male. Si deposita un sentimento di vergogna intollerabile.

«Se chiedi loro perché si vogliono ammazzare, non te lo sanno dire. Manca del tutto la dimensione esistenziale, presente forse nei romanzi di una volta. Ciò che dilaga è una sensazione stordente di vuoto». Che i potenziali, giovanissimi suicidi di oggi non siano moderni Werther – peraltro tacciato di avere scatenato una serie di analoghi suicidi tra i suoi lettori dell’epoca in piena pubertà – è reso evidente da un feroce e cinico appiattimento identitario, provocato da fattori diversi e apparentemente ovvi.

Anzitutto, i requisiti necessari per la felicità e il successo, di cui i social network rappresentano la principale cassa di risonanza: ricchezza, bellezza, popolarità. In mancanza di essi, stare nel gruppo, entrare in relazione con gli altri si pone come un obiettivo inibito, precluso. Se per giunta, oltre a essere esclusi dall’affermazione sociale, i genitori vengono percepiti come figure instabili, ai quali non è possibile rivolgersi perché al primo sintomo di malessere del figlio si convincono di avere sbagliato tutto, il quadro di alienazione inconsolabile si restringe.

In secondo luogo, la distorsione degli imperativi economici e il ruolo via via più imponente di cui il denaro è stato dotato: «Se l’obiettivo fondamentale è fare soldi, se tutto ciò che si fa è strumentale a un risultato, come è possibile appassionarsi veramente a qualcosa?», si domanda Gianluigi Di Cesare. «In assenza di passioni, è difficile affrontare le intemperie dell’esistenza. Si soffre, ci si separa, si muore, questo accade a tutti noi. È la regola del vivere. Ma se mancano idee, estri, coinvolgimenti che giungono dal proprio interno, l’io si disintegra».

In questo senso, il suicidio può essere tradotto come un atto di onnipotenza, di riacquisizione del proprio potere su se stessi e sulle circostanze. Già Xavier Pommereau, nel libro “La tentazione estrema. Gli adolescenti e il suicidio” del 1998, scriveva: «Ai sentimenti di dipendenza e ai legami che li minacciano o li alienano, i soggetti rispondono mediante l’agire con l’illusione di esercitare un controllo, un dominio sulla propria sofferenza. Mi farò da me, non a immagine dei vivi che mi hanno fatto soffrire tanto, ma a somiglianza degli dèi, cui ormai darò del tu».

Riempire di significato soltanto la sfera relazionale, composta di amici, fidanzati e famigliari, non è sufficiente e laddove questi deludono, tradiscono o abbandonano il senso precario e tremante attribuito all’esistenza vacilla nuovamente, il sé perde la sua unica stampella, l’orizzonte si chiude. «Non sanno neanche loro a cosa mirano: alla morte reale o all’interruzione di una vita giudicata insopportabile?», proseguiva Pommereau. La società odierna ha portato all’estremo quelle che negli anni Novanta parevano soltanto premesse: dotare di valore l’esistenza è diventata un’operazione complicatissima, richiede uno sforzo enorme, risorse ineludibili.

«Vi è uno smacco profondo tra le generazioni, che nella storia è sempre esistito. Ma oggi la generazione precedente rifiuta di confliggere», spiega Di Cesare. «Se agli occhi dei padri i figli non hanno segreti, la conseguenza più ovvia è una perdita di curiosità trasversale. Si rifiuta l’incontro con l’altro, con l’ignoto. I ragazzi desiderano stare nella propria città, con i propri amici, ai quali richiedono una presenza concreta e perenne, non diversa da quella garantita dal modello genitoriale. Si corre alla ricerca spasmodica del simile».

Secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità, circa un miliardo di persone è affetto da una qualche forma di disagio o disturbo psichico e circa il cinquanta per cento degli esordi avviene intorno ai quattordici anni. Il settantacinque per cento fa la sua comparsa prima dei ventiquattro. Nel panorama di infinita dissociazione delineatasi, l’identità di “malato” sembra diventare l’unica riconoscibile e capace di conferire visibilità.

La ricerca di sé avviene attraverso la malattia, ci si affeziona alla propria disfunzione perché è la sola a conferire peso, spessore, tratti unici alla propria condizione individuale. Colpisce anche la mutevolezza dei sintomi. Una volta erano molto più organizzati. Adesso tendono a manifestarsi dapprima attraverso fenomeni alimentari restrittivi, poi scivolano nell’autolesionismo, poi giungono all’ideazione suicidaria, per tornare infine al disturbo alimentare. Perfino il sintomo, dunque, è diventato una ricerca patologica di identità.

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