Autodiagnosi e algoritmoPerché molti giovani si rivolgono a Tiktok invece di andare in terapia

I disagi mentali sono sempre più diffusi tra le nuove generazioni e la rete sta diventando un comodo alibi per evitare di affrontare un vero percorso di lavoro sulla propria condizione

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Il 29 ottobre sul New York Times esce un articolo dal titolo «Gli adolescenti si rivolgono a TikTok alla ricerca di una diagnosi di salute mentale». Secondo l’autrice del pezzo, i giovani che ricorrono a TikTok per attribuirsi un disturbo mentale o un disagio di tipo psichico sono sempre più numerosi e questo inficia notevolmente il percorso di analisi successivo, ammesso che avvenga.

Nonostante molti decidano spontaneamente di affidarsi alle cure di uno specialista, la maggior parte rimane ferma allo stadio pregresso, convinta di poter risolvere e addirittura intervenire sui propri sintomi affidandosi ai consigli delle piattaforme virtuali, il che non è diverso dal vituperato luogo comune secondo cui non si ha bisogno dello psicoanalista finché esistono amiche con cui confidarsi.

La dimensione digitale di TikTok consente di muoversi in uno spazio protetto, sicuro, di rassicurante invisibilità. Chiunque può esplorare e setacciare aspetti dell’esistenza che prima obbligavano a un’esposizione di sé. Esposizione di sé che, nel campo delle materie psichiche, muove e produce ancora oggi un’inestirpabile dose di inibizione. Il porno ha permesso la liberazione delle perversioni sessuali perché sigillate nell’attività eminentemente solitaria della navigazione in rete, rischiando di accentuarne o di aggravarne la componente di incompatibilità relazionale. La sfera di approfondimento psichico a cui provvede TikTok rende lecito lo stesso tipo di processo: la slatentizzazione delle più recondite intimità senza essere costretti a nominarle ad alta voce.

Che si sia del tutto o solo parzialmente consapevoli di soffrire, TikTok offre una vasta gamma di contenuti: promozionali, motivazionali, solidali, esplicativi e di auto-aiuto. Sotto l’hashtag #salutementale, decine di migliaia di video mostrano cosa significa essere narcisisti, borderline, bipolari, ansiosi, depressi. Come curare l’insonnia. Accettare i traumi risalenti all’infanzia. Riconoscere una relazione dai tratti tossici. Interpretare i sogni. E sotto, i fantomatici dibattiti virali.

Dietro nickname fantasiosi, ragazzi e ragazze di età compresa tra i 14 e i 30 anni si disfano del silenzio, si esprimono, parlano: «Dopo essere andata in terapia non ho più amici» commenta una. E un’altra, di rimando: «Io ho cancellato dalla mia vita chi diceva che ero capricciosa». Oppure: «Io non mi ricordo i miei traumi». Qualcuno le risponde: «È un meccanismo di difesa, dovresti andare in terapia e parlarne con un medico, ti sono molto vicina».

@hedepyit

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♬ the winner takes it all – november ultra

La maggior parte dei contenuti provengono dalla pagina @hedepyit, o anche CEO Benessere psicologico. Oltre a vantare trentunomila seguaci, il sito è un autentico portale di terapia digitalizzata: non occorre nemmeno dire il proprio nome, la propria età o accennare alla propria storia. Basta cliccare sul questionario di diciannove domande preparate in modo identico per ciascun utente e indicare di quali argomenti preme parlare: le categorie sono standardizzate e variano dalla solitudine alla genitorialità alla procrastinazione e arrivano fino alla leadership e alla crescita personale.

Poi ci si trova di fronte a un grafico dove specificare le percentuali di gradimento di alcune condizioni, ad esempio se si preferisce che l’analista lasci scorrere il dialogo liberamente oppure che solleciti a parlare, eccetera. Alla fine viene assegnata un’ora di seduta gratuita con un professionista, di cui sfogliare la scheda di presentazione come un campionario di stagione: foto segnaletica, il monte ore, le recensioni in merito – estese oppure espresse sottoforma di stelline, proprio come si farebbe con un ristorante o un albergo.

@hedepyit

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♬ Metamorphosis – Danilo Stankovic

Rifugiarsi in rete è un modo di fuggire un vero percorso su di sé. Anche laddove è ben mascherata e apparentemente funzionale, un’analisi prevista al solo scopo di curare sommariamente i sintomi prevalenti e più invalidanti della persona, peraltro tutti autodiagnosticati, serve solo a evitare di toccare il centro incandescente della propria sofferenza, sostiene lo psicoanalista Marco Farina.
«Se arriva un paziente con la fobia degli ascensori, si capisce in fretta che il problema è un altro, che gli ascensori sono solo la punta dell’iceberg, il paravento di una questione che prima non si riusciva neppure a nominare».

Ma perché nei giovani sembra diffusa la tendenza ad arrestarsi al paravento, cioè al deposito ultimo e finale di una catena di eventi consci e inconsci di cui è composta la storia personale di ciascuno di noi, alla foce della quale una vera terapia costringe faticosamente a risalire?

Secondo Francesca Picozzi, psicologa clinica, consulente sessuale, psicoterapeuta in formazione e per giunta vivace tiktoker ventisettenne, i giovani si trovano sistematicamente incastrati all’interno di dimensioni disincentivanti. A partire dai costi elevatissimi che una terapia privata prevede: i fondi pubblici scarseggiano e il bonus psicologico ha già rivelato la sua insufficienza, soprattutto nel gestire le richieste che aumentano a gran voce da quando è cominciata la pandemia. Per giunta, i genitori tendono a ostacolare necessità di questo tipo se giungono da parte dei  figli: minimizzano, non prestano orecchio, si spaventano. Prosegue così un’imperterrita stigmatizzazione da parte delle comunità più anziane, che siano politiche o famigliari.

@francescapicozzipsico

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♬ Jazz Bossa Nova – TOKYO Lonesome Blue

Non c’è da stupirsi se i giovani cercano in rete la possibilità di nominare il disagio che li anima, fosse anche in modo parziale e temporaneo.

In fondo, prosegue Picozzi, i social non svolgono una funzione molto diversa da quella dei film o delle serie tv: in questo senso, qualsiasi canale, qualsiasi fonte che produca identificazione e riconoscimento e serva da campanello d’allarme rispetto a un disturbo psichico, può giovare. «Ci siamo mai chiesti perché oggi vanno così di moda le serie true crime? Non sono altro che la sublimazione di un desiderio di morte, di cui già parlava Freud a fine Ottocento. Oggi la fascinazione nei confronti del dolore, della violenza e del macabro aumenta perché aumenta esponenzialmente la sofferenza dilagante in ciascuno di noi. Proiettandola all’esterno, sentiamo di tenerla sotto controllo. Riusciamo a trasporla, a osservarla da lontano. Questo ci rassicura».

L’elefante rosa all’interno della stanza non sono le autodiagnosi, e neppure i contenuti che il web propone, bensì l’infelicità che i giovani provano e che sembra dilagare, incontenibile, da ogni latitudine. «Da me arrivano perlopiù studenti che si arrestano a pochi mesi dalla domanda di laurea. Nonostante abbiano sempre tenuto una media alta, improvvisamente non sono più capaci di fare niente. E non fanno più niente, letteralmente», spiega Greta Melli, responsabile della sezione milanese dell’Aipa, associazione italiana di psicologia analitica, provvista peraltro di un Consultorio dove i pazienti possono usufruire di tariffe calmierate. «La laurea rappresenta il passaggio a un regime adulto, segna il primo solco della propria esistenza. Ecco, è come se i giovani non riuscissero più a ipotecare la loro vita sulla base di un sentiero solo. Hanno bisogno di lasciarsi aperte più opzioni».

Sono viziati, pigri, resi apatici dalla quantità di stimoli a cui sono sottoposti dall’epoca di consumo, elastica e globalizzata nella quale sono nati? Oppure, il terrore che provano all’idea di sancire un ingresso nel mondo ha radici più profonde? «I giovani sono il riflesso della società a cui appartengono. Da questo punto di vista, ogni fase storica ha avuto i suoi problemi» dice Picozzi. «Subito dopo la prima guerra mondiale, si diffondevano i disturbi post-traumatici. Ai tempi di Freud dilagava l’isteria. Oggi però i giovani si trovano ad affrontare un presente difficilissimo. I lavori sono precari, l’investimento narcisistico dei genitori sui figli è sempre più massiccio, i giornali ti ricordano che devi laurearti in anticipo e con la lode, e nel frattempo arrotondare con altri quattro lavori part-time. Se sei un anno fuori corso, non vali niente».

Ritirarsi dal processo di crescita, ritardare l’emancipazione, esporsi sempre più lentamente agli snodi che deciderebbero le sorti della propria identità costituiscono i segnali inequivocabili di una generazione in declino, stordita da una dimensione politica e storica che ha smarrito il suo senso intrinseco, quello che consente a migliaia di esseri umani di uscire di casa la mattina per recarsi al lavoro sentendo di appartenere a un mondo con una sua logica e una sua coerenza.

In questo senso, il covid è servito a slatentizzare moltissimi mal funzionamenti che prima erano difficili da portare allo scoperto. Ha tolto un tappo. Rifugiandosi dietro al pretesto degli impedimenti e dei disagi che la pandemia ha imposto al pianeta intero, i giovani hanno avuto finalmente occasione di parlare di sé. I sintomi che hanno tracciato erano naturalmente tutti già presenti all’interno delle loro vite, in atto o solo in potenza, ma raccoglierli sotto al generico cappello delle sindromi successive all’avvento del covid è stato un sollevante, collettivo paravento, per tornare alle parole di Marco Farina.

È una tendenza comune e piuttosto comprensibile e non sempre è un male. «Cercano di guardare ciò che per loro è più tollerabile» spiega Greta Melli. «Gli attacchi di panico, i disturbi d’ansia sono più accettabili perché ormai ampiamente diffusi. Già la depressione rimanda echi di suicidio, di morte, di degenerazione. Non sono a conoscenza del fatto che esiste una gradazione all’interno di una malattia mentale, o che una persona può presentarne solo alcuni tratti. Ragionano per pacchetti completi».

Servirebbe maggiore informazione, e questo è un altro tasto dolente di cui tutti discutono senza mai giungere a vere soluzioni. Se i giovani si rivolgono a Internet, a cure fai da te o a comunità virtuali è anche perché sperano di tornare a funzionare nel minor tempo possibile: vogliono liberarsi del sintomo più acuto e riprendere a risultare prestanti all’interno di un’esistenza dove tutti appaiono iperattivi e smaglianti, dove, come ricordava Francesca Capozzi, tutti sembrano fare tutto.

«L’approccio terapeutico può anche avvenire per vie collaterali» conclude Marco Farina. «Prendiamo una ragazza che è stata anoressica in piena adolescenza e che ai tempi ha seguito una terapia famigliare, in cui a lei e ai suoi genitori veniva detto cosa fare. Si chiamano terapie sistemico-comportamentali. La stessa arriva da me a trent’anni e mi dice che non ha risolto niente. Io le rispondo che però quella terapia ha avuto il merito di salvarle la vita, in senso puramente biologico. Dal punto di vista del valore, dunque, non c’è un meglio e un peggio. Alcune persone hanno competenza di quanto fiato hanno per affrontare la fatica che un certo intervento comporta. La sedicenne anoressica che non si sente di affrontare i meandri del suo inconscio, ha bisogno solo di qualcuno che le dica come comportarsi. Bisogna trovare autonomamente le energie e anche le forze».

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