Donna, vita, libertàLa grande serata di Linkiesta e Repubblica al fianco del popolo iraniano, per una rivoluzione possibile

Il tutto esaurito al Teatro Franco Parenti per esprimere la solidarietà politica e culturale a chi combatte la battaglia epocale contro i regimi totalitari, a Teheran come a Kyjiv

Per l’Iran come per l’Ucraina. Era pieno il Teatro Parenti il 13 marzo, è pieno l’11 dicembre. Milano è al fianco dei popoli che lottano per i loro diritti.

Il sindaco Beppe Sala ricorda la ricorrenza, all’indomani della Giornata Mondiale dei Diritti Umani. «Il 10 dicembre 1948 all’Onu veniva approvato un testo rivoluzionario, la Dichiarazione universale dei diritti umani, il testo che vanta più traduzioni al mondo. C’è un prima e un dopo quella dichiarazione. È di fatto la Costituzione del mondo», dice. «Ci sono momenti storici in cui queste parole rischiano di suonare retoriche», ricorda Sala, in riferimento ai milioni di cittadini ucraini al buio e al gelo a causa dei missili russi.

Quella strategia è «stremare un intero popolo», a Teheran come a Kyjiv, «siamo qui perché è necessaria la testimonianza di Milano a favore di chi in Iran reclama i suoi diritti». Il sindaco parla di una «rivoluzione possibile», di donne diventate statue viventi della Libertà. «Dobbiamo dire a tutte e a tutti – conclude Sala – che Milano è al fianco delle donne e degli uomini che reclamano quello che spetta loro: il diritto, come recita la Dichiarazione universale dei Diritti umani, di far parte a pieno titolo della famiglia umana».

Andrée Ruth Shammah cita il Talmud: «Dio conta le lacrime delle donne». Il direttore di Repubblica, Maurizio Molinari, descrive la «protesta popolare senza precedenti contro la teocrazia islamica», «la rivolta contro il velo islamico come strumento di oppressione» e l’ondata di sostegno in tutto il mondo. «Come dimostrano le battaglie di Gandhi, di Martin Luther King e Mandela – spiega Molinari –, la mobilitazione pacifica, di massa, per rivendicare i diritti umani è un’onda invincibile per chiunque. Quella dell’Iran è la nostra libertà, i valori della Persia non meritano di essere violentati da una dittatura che viene dalla notte della Storia».

Per il direttore di Linkiesta Christian Rocca, «le rivoluzioni sembrano sempre impossibili il giorno prima e sempre inevitabili il giorno dopo». Il regime teocratico è sopravvissuto a tutto, ma per la prima volta improvvisamente mostra i segni di un cedimento strutturale. «C’è un altro popolo coraggioso e ammirevole – ricorda Rocca – che abbiamo celebrato in questo teatro e che altrettanto inevitabilmente sta lottando per la propria incolumità, per la propria indipendenza, per la propria libertà. È il popolo ucraino». Di fronte a questa battaglia comune, è l’appello di Rocca, «isoliamo il regime iraniano, così come abbiamo fatto con Putin. Basta aiutare chi spara su chi mostra i propri capelli, chi impicca i manifestanti, chi tiene in carcere un intero popolo».

Il regista Luca Guadagnino, che ha già dedicato il leone d’argento ai colleghi iraniani, legge l’appello di uno di loro, Asghar Farhadi, sul momento epocale: «Ho visto indignazione e speranza, diritto di scegliere il loro destino, sono orgoglioso delle donne forti del mio Paese». La scrittrice Azar Nafisi racconta l’Apartheid di genere che tiene in ostaggio le iraniane: «La gente è stupita dal coraggio delle donne che scendono nelle strade senza sapere se torneranno a casa. Questa rivolta non è come altri momenti di proteste negli ultimi quarantatré anni: questi giovani non vedono un futuro davanti a loro. Non è politica, non è ideologica, è esistenziale».

Una giovane legge la sua lettera alla platea. «Che strana sensazione iniziare il primo giorno di scuola a soli sei anni con l’hijab. Non lasciamo che questo regime crudele prenda la vita dei giovani iraniani senza nessun timore. Non è mai stato punito nessuno per aver spruzzato acido sul viso delle ragazze, sottratto miliardi o ucciso persone per strada». Il professor Kayhan Abbasian elogia la potenza del trittico Donna, vita, libertà. «Questo slogan straordinario non ha bisogno di metafore o di parole per essere compreso dagli altri popoli. Tutti possono capire fino in fondo il significato di queste tre parole, per questo le proteste comprendono non un solo Paese, ma tutto il mondo».

In collegamento, gli aggiornamenti del giornalista Mariano Giustino. «Il regime usa l’arma del terrore, la pena di morte, dopo aver utilizzato quella della tortura, con violenze inaudite e stupri. Le sentenze di condanna a morte si stanno moltiplicando in queste ore». Ma in tante città le donne ora escono senza velo, secondo Giustino è in corso la «rivoluzione che cambierà il volto del Medioriente».

Sul palco sale anche Ornella Vanoni: «Il vero colpevole è il velo – dice –, ma non lo hanno usato solo in Iran, anche le italiane lo hanno messo. È in onore all’uomo, ma chi l’ha scritta questa stronzata? Che cos’hanno i capelli di così terribile? Sono erotici, sarà quello, è difficile trovare un altro motivo ideologico. L’immagine è più forte di tutto, puoi scrivere quello che vuoi, ma niente ti farà male come vedere le fotografie di quello che succede. Quando apro il giornale la mattina, mi si spezza il cuore. La libertà si paga sempre con la vita», si commuove Vanoni.

Stefano Boeri accompagna alcuni giovani artisti iraniani. Una di loro ricorda un amico in prigione. «Siamo andati insieme all’università di arte, speravamo di diventare famosi. Dodici anni io e mio marito abbiamo perso le speranze, anche il mio amico voleva andare a Parigi, parla francese. Ma sua moglie gli ha detto: “No, non andiamo”. Hanno scelto di rimanere per ricostruire l’Iran, rianimarlo, ma comunque sono finiti in prigione. Il regime non cambierà, deve cadere». Un’altra rivolge un appello al ministro degli Esteri, Antonio Tajani: «Il 14 dicembre si vota l’eliminazione della Repubblica islamica dal comitato delle Nazioni unite per le donne. Magari la mia voce gli arriva, vorrebbe dire tanto per noi».

«Mi vergogno della mia ignoranza e del mio privilegio – interviene lo scrittore Antonio Scurati –. Riflettendo su questo, non possiamo dire di sapere cosa sta succedendo laggiù. Esiste un abisso tra le nostre esistenze di europei spesso distratte e quelle di queste donne, ragazze e uomini. Noi non possiamo capire, partiamo da questo socratico “sapere di non sapere” perché serate come questa non corrano il rischio di essere un balsamo per le nostre coscienze. Come facciamo a muovere un passo verso questa umanità sofferente ed esultante?», chiede Scurati.

«Poniamo un interrogativo radicale per loro su di noi – risponde l’autore –. Questo pezzetto di mondo gode di un privilegio frutto di lotte di generazioni che ci hanno preceduto e che dobbiamo continuare a interrogare. A che punto è qui da noi la lotta per i diritti delle persone e per la piena eguaglianza tra uomini e donne? Non è una questione chiusa, o archiviata». Alla radice dei femminicidi c’è la stessa misoginia del regime degli ayatollah. «Non è chiusa – conclude Scurati – quando un partito vince una campagna elettorale usando uno slogan ottocentesco: Dio, patria e famiglia. Non abbandoniamo quella stessa lotta qui dove siamo nelle condizioni ottimali per condurla».

«Quando il regime ha paura dei manifestanti più di quanto i manifestanti ne abbiano di morire, qualcosa di enorme sta succedendo», è il messaggio della giornalista Concita De Gregorio, che invita a «tenere le telecamere accese» e condanna la sinistra occidentale per «le reticenze e i pudori nell’unirsi a questa lotta». Come chiosa Ruth Shammah, «Un po’ tutta Milano è qui con noi stasera». Il direttore del Piccolo Teatro, Claudio Longhi, cita Ariane Mnouchkine: «Il teatro è questo, non spettacolo, ma rito, cerimonia collettiva da cui tutti, spettatori e attori, devono uscire più forti e umani. Il teatro non è solo quel che dici, è quello che fai. Concreto come l’utopia, che non è qualcosa impossibile da fare, ma qualcosa che ancora non è stata fatta».

Per lo psicanalista Massimo Recalcati, «Quello che noi vediamo è un vero e proprio delirio. Un sistema teocratico è un sistema delirante. Quando si fa il male nel nome del bene, il male può essere infinito. È un delirio che noi conosciamo bene perché ha attraversato l’Occidente. È una brace che ha caratterizzato anche la nostra storia». L’esempio è la caccia alle streghe. «Il tentativo dei regimi patriarcali è sopprimere la parola e la dimensione libertaria del corpo – conclude Recalcati –. Nel sadismo del potere pubblico e intimo, ciò che giustifica l’uso sadico del potere individuale o collettivo è sempre un criterio pedagogico, educativo. Il femminile è ciò che custodisce l’irriducibilità del particolare rispetto al tratto gelido degli universali».