Terra di mezzoIl prezioso mosaico di popoli in Ucraina che l’imperialismo di Putin vuole uniformare

Come racconta Olesja Jaremčuk nel suo libro edito da Bottega Errante, per secoli quattordici minoranze etniche hanno arricchito culturalmente il Paese. Una diversità che il Cremlino vuole distruggere

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È questa la nostra Ucraina, una “terra di mezzo” che per secoli ha visto insinuarsi nel proprio territorio ondate migratorie volontarie o forzate, che hanno lasciato una scia di isole fatte di comunità culturali diverse, e dove poi, ormai nel Ventesimo secolo, si è insinuato anche qualcos’altro, un rullo compressore che mirava a un’uniformazione pianificata: linguistica, culturale, religiosa (o piuttosto antireligiosa), economica e cos’altro? Ideologica.

Ecco come appare adesso la nostra Ucraina, è questo il suo archetipo: un insieme di tipici edifici sovietici, tra i quali solo l’occhio più vigile noterà un qualcosa di altro, rimasto intatto nel nuovo panorama “ordinato” a causa della negligenza o della caparbia ostinazione di qualcuno. Una piccola chiesa dove si canta in un’altra lingua; una pietanza che si prepara da diversi secoli in decine di case nei dintorni, un piatto che, forse, è l’unico ricordo di quel lungo viaggio dalle montagne innevate che un tempo avevano intrapreso gli antenati; un mestiere arrivato da una patria lontana; delle parole in un’altra lingua ascoltate durante l’infanzia, che i vicini non capiscono.

Certo, queste isolette sono piccole, a volte così minuscole da essere visibili solo con la lente d’ingrandimento di un orafo: come un intarsio su una superficie più o meno omogenea, già di per sé interessante, ma pur sempre resa incommensurabilmente più ricca grazie alle sue sfaccettature diverse. Questo libro è proprio come una lente d’ingrandimento, una lente precisa e piena d’amore, che muovendosi rivela luoghi in cui l’ucrainità si espande improvvisamente, si apre a tutti gli angoli del mondo, supera le paradossali mura del nazionalismo etnico con la stessa naturalezza con cui un pesce attraversa le acque territoriali.

È indiscutibilmente un segno di saggezza e maturità saper dire: i nostri armeni ed ebrei, i nostri polacchi, cechi e slovacchi, i nostri rom, i nostri tedeschi, i nostri gagauzi, i nostri valacchi e albanesi. Solo allora – e non prima – cesseranno tutti di essere dei senzatetto. Sì, senzatetto, ed è colpa nostra, colpa della cosiddetta maggioranza sociale. Perché finché rimarranno stranieri, verrà negato loro un posto: straniero è colui che viene privato di un posto nello spazio, colui che dovrebbe sempre essere “altrove”. Coloro che hanno patito le deportazioni di Stalin, e che talvolta sono stati pure vittime dei nazionalismi post-sovietici, sono ben consapevoli di cosa significhi tutto ciò. Ecco perché non sono sorpresi. Spesso non si aspettano nulla da noi. La maggior parte tace e scompare. Se ne va, infine assimilata. Muore.
«Ho paura».
«Di chi?».
«Di tutti».
«Perché?».
«Non lo so».
«Me ne vuole parlare?».
«No».

Questo dialogo è tratto dall’intervista all’ultima donna armena di Kuty, nei Carpazi, rimasta l’unica memoria vivente di una comunità armena un tempo grande e vivace. Spesso tacevano, è vero: le loro biografie, le origini e i nomi, la loro lingua, diventavano molte volte un “corpo del reato” sufficiente. Ma perché continuano a tacere ancora adesso?

È questa la domanda che non dobbiamo smettere di porci. Poche cose al mondo sono più pericolose del desiderio di uniformazione linguistica e culturale. E ci sono poche cose più tristi della riluttanza a interrompere questo processo, a esaminare cosa è rimasto dopo il passaggio del rullo compressore della storia: queste sfaccettature sparse, questi ricordi, questi “piccoli segreti”. Sono in primo luogo persone, sono i nostri connazionali, della cui esistenza spesso siamo inconsapevoli. Ammettiamolo: cosa sappiamo realmente, per dire, dei nostri turchi mescheti? O dei nostri svedesi? E senza tale conoscenza, qualsiasi nobile sforzo per creare una “nazione politica ucraina” sarà un gesto sterile, un discorso vano. È impossibile invitare l’Altro al dialogo senza conoscerne il nome. Perciò, leggete questo libro, leggetelo attentamente.

E un’altra cosa, per finire. È impossibile prevedere in quale momento e con quali criteri sarai (sarò, sarà) bollato come un estraneo o un’estranea, come qualcuno che minaccia il sistema, la “purezza” del panorama, il concetto di certi “designer”. Ecco perché siamo tutti Altri, tenuti insieme solo dalla comprensione, dall’empatia e dall’amore. Questo libro parla anche di questo. Anzi no, parla innanzitutto di questo.

© Edizione italiana Bottega Errante Edizioni s.r.l. 2022

Mosaico Ucraina, Olesja Jaremčuk, Bottega Errante edizioni, 191 pagine, 16 euro

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