«La morte può arrivare in qualsiasi momento quando c’è una guerra vicina». È il pensiero comune dei residenti di Przewodów, villaggio polacco distante soli sei chilometri dal confine con l’Ucraina dove lo scorso 15 novembre l’esplosione data dalla caduta di un missile in una fattoria della zona ha provocato la morte di due civili polacchi, Boguslaw Wos e Bogdan Ciupek, di sessantadue e sessanta anni.
«Alla morte ci arriviamo tutti in qualche modo, che sia di cancro o per mano di un russo. Se dovessero attaccarci, non esiterò a prendere il fucile e morire per la mia patria». Questa, invece, è la certezza di chi non ha paura delle minacce nucleari di Mosca. Sono le parole di Andrej Kujsza, sessantacinquenne, a capo dell’associazione di pescatori più grande di Giżycko, cittadina nel nord-est della Polonia, non molto distante dal corridoio di Suwałki, il tratto di confine polacco-lituano stretto tra l’exclave russa di Kaliningrad e la Bielorussia, che prende il nome dalla vicina cittadina polacca.
Poco più di cento chilometri che dividono la Lituania, e per estensione le Repubbliche baltiche, dalla Polonia e dal resto d’Europa diventati nel corso degli ultimi mesi una zona ad alta tensione proprio per la brevità del tratto il cui controllo potrebbe isolare Lituania, Lettonia ed Estonia dal resto del continente e dal blocco Nato con relativa facilità.
Przewodów e Suwałki condividono lo stesso destino: la vicinanza al fronte di guerra. Nelle parole di Andrej si presenta, in maniera rude ma profonda, il patriottismo che ha spinto la Polonia a essere il Paese più oltranzista della Nato nei confronti dell’invasione russa dell’Ucraina, anche più degli americani stessi. E non è difficile immaginare il perché. Nel corso della sua storia, il Paese è infatti passato più volte sotto il controllo dell’impero russo e dell’Unione Sovietica, e vede la fine di questa guerra in un solo modo possibile: con una sconfitta per Mosca tale da innescare un crollo sul piano geopolitico e militare, allontanando così lo spettro di una riunificazione sovietica sotto Vladimir Putin. In Polonia, come nel resto dell’Europa dell’Est, un sentimento di timore nei confronti della forza russa è ancora diffuso tra la popolazione, soprattutto quella che ha vissuto gli anni del comunismo.
La vita che cambia
La contrapposizione tra la percezione della popolazione locale e l’esclusione unanime di un attacco militare russo a un Paese Nato da parte degli analisti è netta. Circa il novantaquattro per cento dei polacchi vede la Russia come una minaccia importante rispetto al sessantacinque per cento del 2018, secondo un sondaggio di giugno del think tank americano, Pew Research Center.
Come per i residenti di Przewodów, la gente per le strade di Giżycko avverte che l’andamento della guerra sta cambiando le loro vite, e non può fare altro che adattarsi al cambiamento non ricercato. «Non ci sentiamo sicuri» è la frase più ricorrente. Piotr, prioprietario di un negozio di animali domestici, per esempio, mostra tutta la sua angoscia per la mancata operazione di ristrutturazione dei rifugi comunali: «Un tetto sicuro in caso di bombardamento farebbe sicuramente piacere», sottolinea, rimarcando comunque la sua volontà di combattere per la propria patria «con unghie, denti e fucili» se i Russi dovessero arrivare.
Anche Marianna, maestra di asilo, rassicura ogni giorno i suoi bambini ma, come in un gesto paradossale di stizza, ammette: «Mi metterei a disposizione dell’esercito se fosse necessario». Un certo timore, seppur celato dietro parole di forza, è percepito anche da Andrej: il suo rifugio non è ufficialmente registrato all’interno degli inventari comunali, ma ancora resiste al tempo, «e speriamo anche alle bombe», dice. Il tetto, costruito durante la Seconda guerra mondiale, è di origine tedesca, quando proprio i nazisti si difendevano da possibili attacchi aerei degli alleati.
Nella città di Giżycko si contano in totale undici rifugi, tutti costruiti dai tedeschi tra il 1939 ed il 1941. Le condizioni in cui versano, però, «sono pessime». Secondo il presidente di una Ong locale specializzata nella promozione dello sviluppo urbano, Paweł Andruszkiewicz, infatti, la gestione comunale potrebbe fare di più per migliorare il sistema di ventilazione e provvedere alla modernizzazione degli interni.
Al contrario, i locali sottolineano la totale mancanza di una governance strategica che riporti queste strutture al centro del sistema di difesa locale in caso di attacco missilistico. «È tutto totalmente alla deriva», sottolinea Paweł, e i «lavori di ristrutturazione tardano a cominciare», preferendo piuttosto risotterrare quanto scavato per mancanza di fondi o abbandonare i ritrovamenti agli investimenti dei soggetti privati, che li adibiscono a ristoranti o bar. Dopo i missili arrivati a Przewodów, «qualcosa si sta movendo», ammette, e l’amministrazione locale sta mettendo su un programma più dettagliato, ma «c’è come la sensazione che si muova tutto troppo lentamente», quando potrebbe essere già inveitabilmente troppo tardi.
La tesi è appoggiata anche da Daniel Domoradzki, anche lui a capo di un’altra Ong locale che coinvolge i residenti nello sviluppo delle infrastrutture locali, affiliata a quella di Paweł. «La risposta delle autorità alle nostre richieste di provvedere alla modernizzazione di rifugi antiaerei nella città? Passiva e incomprensibile». Da quando è scoppiata la guerra, fa sapere Daniel, l’attuale governo Morawiecki ha anche iniziato i lavori per la redazione di una legge sulla protezione civile, ma «le speranze di buona riuscita sono minime».
Anche Jan Sekta, storico ed esperto di rifugi dell’area, sottolinea la possibilità che la Polonia diventi un target per il Cremlino. «Essendo un ex militare che ha servito a Kaliningrad, so quanto la Polonia possa rappresentare un potenziale target per le strategie militari del Cremlino», spiega mentre studia diverse modalità di ristrutturazione dei rifugi scoperti in città. Sekta sottolinea l’estrema necessità di mettere mano a progetti di ammodernamento, vitali per evitare che le condizioni di questi bunker sotterranei possano con il tempo «peggiorare ancora più e rappresentare la nostra tomba, piuttosto che la nostra salvezza».
Per questo, si occupa di digitalizzare reperti di foto e documenti cartacei relativi ai rifugi, per aumentare la consapevolezza del pericolo di bombardamenti. «Solo guardando con i propri occhi le condizioni in cui i rifugi versano si arriverà a capire che è necessario un cambiamento architettonico lungimirante e moderno», conclude.
L’attivismo dei residenti della zona viene anche affiancato dal lavoro dei media locali. Agata Kropiewnicka, reporter specializzata nella costruzione di audio-inchieste su tematiche sociali, politiche ed economiche locali, infatti, parla della necessità di informare i cittadini dei rischi di un attacco missilistico russo, attraverso il podcast settimanale «Reporters Magazine» della radio locale Melo Radio, con la speranza di «spingere l’amministrazione locale a prendere le misure necessarie per adeguarsi al pericolo». In una delle puntate, Kropiewnicka intervista Bogdan Makowski, storico in pensione che ribadisce l’importanza della ristrutturazione dei rifugi cittadini: «I rifugi della città hanno tunnel tortuosi che però sono necessari perché, quando una bomba arriva, molte persone sopravvivono», spiega.
Reazioni contrastanti
Eppure dopo l’esplosione avvenuta dal lato sbagliato del confine, la Polonia non ha esercitato la pressione che molti si aspettavano sulla Nato per una risposta all’incidente. La ragione va ricercata nella consapevolezza di Varsavia di non potersi permettere di strumentalizzare l’incidente di Przewodów per non spostare gli equilibri della protezione americana sul Vecchio Continente.
Questi picchi di tensione, però, non sono nuovi: si erano verificati al confine già lo scorso giugno quando la capitale lituana Vilnius era stata accusata di bloccare i rifornimenti verso Kaliningrad. La Lituania, infatti, aveva annunciato il divieto di transito sul suo territorio di merci, come acciaio e minerali di ferro, provenienti dalla Russia verso l’exclave, venendo meno agli accordi del 2004 per via delle sanzioni europee che vietano l’importazione di alcuni beni dalla Russia. Così, proprio per la loro posizione a meno di trenta chilometri dal confine, sull’area delle cittadine polacche di Suwałki e Giżycko si sono concentrati gli occhi globali della geopolitica.
Ma il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki ha dato priorità all’esigenza di garantirsi la protezione degli Stati Uniti, sapendo bene al contempo che questo stesso sostegno porta con sé dei limiti strategici: sebbene la Russia sia indebolita e riesca a malapena a difendere i territori ucraini da poco annessi, possiede armi nucleari tanto forti da radere al suolo un intero Paese, nel caso decidesse di utilizzarle.
«La nostra nazione non è minacciata», ha fatto sapere il viceministro degli Interni polacco Maciej Wasik, «ma si sta preparando per lo scenario peggiore». Uno scenario, quello di un’estensione della guerra, che la Polonia non vuole immaginarsi ma che nel frattempo è costretta a prendere in considerazione.
Per questo da qualche mese nel Paese si controllano le condizioni dei rifugi antiaerei, in un clima che considera il disgelo con la Russia definitivamente un lontano ricordo. Varsavia si è anche impegnata a raggiungere la soglia di trecentomila unità per le dimensioni delle sue forze armate e ad aumentare le spese per la difesa, tanto da avere il rapporto più alto tra i membri della Nato. Si prevede, infatti, che la spesa polacca per la difesa supererà il tre per cento del prodotto interno lordo nel 2023, rispetto al 2,4 per cento di quest’anno.
L’ennesima dimostrazione della contrapposizione tra percezione e realtà è data dai corsi di addestramento militare offerti nei weekend dalla Polonia alla popolazione civile, programma che ha riscontrato un certo successo. Come a dire, «non succede, ma se succede siamo pronti». E così, per sicurezza, sono stati in molti a fare richiesta di partecipare, tanto da portare il governo a pianificare un’estensione del programma a gennaio 2023.
Una guerra così vicina, contro un oppressore degli anni recenti per il Paese dell’Europa orientale, ha poi portato la maggior parte degli intervistati di un sondaggio di opinione a esprimersi a favore della reintroduzione della leva militare obbligatoria, mentre i poligoni di tiro hanno registrato un’impennata di visitatori, ravvivando l’interesse popolare verso il concetto di difesa.
«Speriamo siano stati solo missili vaganti», dicono i residenti delle zone di confine, mentre in molti continuano a chiedersi la ragione del rapido allineamento di Varsavia sulle posizioni americane che invitavano alla calma al momento dell’esplosione dei missili in territorio polacco. «Perché nonostante Mosca abbia una responsabilità indiretta e non sia scontato che non siano stati i russi stessi a lanciare i missili, non voleva a nessun costo arrivare a dover invocare l’articolo 5 della Nato», quello cioè che obbliga i Paesi del patto ad andare in soccorso di un Paese del blocco quando questo viene attaccato. Questa la spiegazione più plausibile secondo Federico Petroni, analista geopolitico italiano in merito alla questione. Nonostante le reazioni e i timori dei residenti della zona, «c’è una volontà, da parte delle tre forze principali forze mondiali [Stati Uniti, Russia e Cina, ndr] di non fare di questa guerra una guerra mondiale.
Secondo Paolo Bergamaschi, ex funzionario alla Commissione Affari Esteri del Parlamento Europeo, invece, la motivazione che ha spinto i polacchi a non strumentalizzare l’accaduto è di stampo prettamente politico: «Il gioco a cui sta giocando la Polonia», dice Bergamaschi, «è il guadagno tattico che il governo di Morawiecki sta adottando in termini di consensi elettorali», inserendosi nelle linee di faglia che separano le strategie interne europee. Se da una parte, infatti, il fronte diplomatico dell’Unione europea, capeggiato dal cancelliere tedesco Olaf Scholz, e dal presidente francese Emmanuel Macron, sono decisi a mantenere aperto un canale di dialogo con la Russia; dall’altra, il leader del partito polacco al governo Diritto&Giustizia, Jarosław Kaczyński, insiste con un atteggiamento anti-russo che punta allo scontro mondiale, ponendo al centro la questione identitaria. Con il rischio, peraltro, di spaccare il fronte sovranista europeo con l’Ungheria di Viktor Orbán, favorevole invece ad un’azione «morbida» nei confronti di Putin.
Mentre il gioco della geopolitica produce effetti sulle vite dei cittadini nei piccoli villaggi di frontiera che corrono ai ripari di rifugi per il momento tutti da ristrutturare.