Make America wise againLa post-verità ti fa male lo so (se poi ti multo)

Svalvolati e falsari parlino pure a ruota libera (la libertà di espressione è sacra), ma se i tribunali americani cominciano a condannarli per diffamazione, com’è successo ad Alex Jones, chissà che non torni in auge la prudenza

LaPresse

Questo è un articolo del numero di Linkiesta Magazine + New York Times World Review 2022 ordinabile qui.
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Il 2023 è l’anno in cui Donald Trump promette di tornare a far suonare le sue campane. O perlomeno sarà l’anno in cui i suoi epigoni si ricorderanno di come il Grande Maestro conquistò la fiducia degli americani: in linea di massima, raccontando balle. Ventimila e più balle certificate dal Washington Post Fact Center nei quattro anni di mandato presidenziale. Un martellamento di falsità che, oltre a confondere in modo devastante la psiche dei connazionali, ha provocato la legittimazione di un principio assurdo nella sua assolutezza: il falso può valere quanto il vero.

C’è stato un tempo in cui i grandi network e le principali testate giornalistiche erano gli arbitri della verità, che apparentemente amministravano con equilibrio e giustizia. Il pubblico si fidava di loro. Quando Walter Cronkite apparve piangendo in tv per dire agli americani che John F. Kennedy era stato ucciso a Dallas, il pubblico non si chiese che cosa fosse davvero successo. Più di sessant’anni dopo la netta maggioranza degli americani è convinta che quel giorno l’assassinio di JFK fu il prodotto di un complotto ancora misterioso.

I primi gap in questa percezione delle notizie intese come dubitabili verità arrivano con l’avvento delle televisioni all news, sovente politicamente orientate. Per coprire le giornate di programmazione, queste emittenti hanno cominciato ad aggiungere alle notizie un pericoloso fattore innovativo: i commenti e le interpretazioni, non sempre esposti a un valido contraddittorio. Poi è arrivato internet. Nel cyberspazio la contesa è diventata la ricerca d’attenzione e di rilevanza. E nella rete qualunque cosa il pubblico volesse credere, era disponibile e consumabile. Qui nasce l’America della post-verità.

Poco più tardi i social media hanno polarizzato lo scenario, intrappolando gli utenti in bolle di disinformazione all’interno delle quali è naturale smarrire il contatto con la verità e produrre piuttosto nuove forme d’isterismo: il disprezzo per realtà evidenti come forma di protesta e di non-adesione al dettato della ragione, sempre rifacendosi al principio ordinatore del progetto americano, secondo il quale ciascuno può pensare ciò che vuole, con gli stessi diritti degli altri, anche nel caso che siano una schiacciante maggioranza. Anzi. Se adesso, ad esempio, la maggior parte dei media sostiene il deciso consenso della scienza verso i benefici dei vaccini, gli stessi media baderanno a bilanciare la questione dando spazio all’attivismo no-vax, per evitare accuse di pregiudizio e producendo la di Stefano Pistolini ← Curva Sud Sostenitori dell’ex presidente americano Donald Trump a un comizio del suo tour Save America a Prescott, nello Stato meridionale dell’Arizona, il 22 luglio scorso. Svalvolati e falsari parlino pure a ruota libera (la libertà di espressione è sacra). Ma se i tribunali americani cominciano a condannarli per diffamazione, com’è successo ad Alex Jones, chissà che non torni in auge la prudenza IL 9 0 IDE E Il debunking era sembrato essere la soluzione. Ma mai una guerra è stata perduta in modo così rovinoso: le fake news volano come un’epidemia, mentre quelli che le verificano arrancano falsa impressione che esista un dibattito dove in effetti non c’è. L’informazione in sostanza favorisce la disinformazione.

Grazie al boom dei social, ognuno oggi dispone della sua verità e può tranquillamente vivere al suo interno. Se l’idea che un uomo politico sia bugiardo è un cliché risaputo, è perlomeno bizzarro il numero di persone che, a dispetto di un’infinità di prove contrarie, credono che Trump non menta. Ma l’ex presidente è solo il sintomo di un problema più vasto, ovvero il successo di media partigiani che mandano in orbita notizie dubbie o del tutto false, a cui si aggiungono emanazioni governative che diffondono propaganda sotto forma di fake news e social media che amplificano tutta una gamma di teorie del complotto, seminando disordine sociale.

La vita civile, a cominciare da quella della società americana, soffre enormemente queste forze maligne per le quali la sopraffazione conta più della comprensione, instaurando una relazione sempre più tenue col concetto di realtà.

Del resto, l’America rispetta la molteplicità di opinione al di sopra di ogni altra cosa e la tradizione dell’individualismo liberale si radica nella convinzione che tutti i punti vista siano rispettabili. Quindi non deve sorprendere che oggi così tanti americani si sentano in diritto di elaborare la propria verità. Dal momento che competenza e autorità sono viste con scetticismo, è legittimo credere che i socialisti esistano soltanto per fare a pezzi l’american way of life. O che il governo sia segretamente intenzionato a sequestrare tutte le armi nelle mani dei cittadini. O che i gay cancelleranno la sacra istituzione del matrimonio. O che quelli di Black Lives Matter incendieranno il tuo quartiere.

Quando Sean Hannity spara fake a raffica – il furto elettorale! – minaccia la capacità di analisi e il pensiero critico di chi guarda. E prende in giro tutti. Finché si scatena l’inferno: il 6 gennaio 2021, ad esempio, davanti al Campidoglio. Questa è la sorgente della post-verità. Il fondamentalismo che prevale sulla riflessione.

A metà anni Dieci pareva trovata la soluzione: il debunking, la sistematica attività di verifica condotta da specialisti e destinata a smentire qualsiasi notizia o teoria falsa. Beato ottimismo! Mai una guerra è stata perduta in modo altrettanto rovinoso. Il debunking arranca dietro a complotti che volano come epidemie, le smentite restano indietro, affannate, inascoltate, reperto di un passato fatto di logica. Quando una balla spaziale fa presa sul pubblico, il gusto di affondarci le mani e di diventarne diffusori è più potente del bisogno di smontarla. Per cambiare le cose e guarire dalla malattia, vanno cercate altre strade. È qui che entrano in gioco Alex Jones e la vicenda della sua apparente rovina. Che ruota attorno a un antico interrogativo: bisogna porgere l’altra guancia?

Ci sono inconfutabili prove che uno squilibrato abbia ucciso venti bambini e sei adulti alla scuola elementare Sandy Hook di Newtown, Connecticut, il 14 dicembre 2012. Sono fatti inoppugnabili. Eppure ricevuti, a vari livelli, con scetticismo, da ampie fasce del pubblico americano. Il principale teorico della cospirazione riguardo alla tragedia di Sandy Hook si chiama Alex Jones, 48 anni, ultraconservatore trumpiano di Austin, Texas, già noto per altre teorie del complotto, strombazzate nei suoi popolarissimi radioshow e, dal 1999, sul suo sito web InfoWars, centrale online delle notizie false il cui slogan recita “È in atto una guerra per la tua mente!” – ma all’interno del quale poi vengono spudoratamente venduti anche integratori alimentari e kit di sopravvivenza.

Nel 2018, YouTube, Facebook, Spotify e Twitter hanno bandito Jones dalle loro piattaforme, per violazione delle regole e diffusione di contenuti offensivi e lesivi. Resta il fatto che quel maledetto giorno di dieci anni fa il giovane Adam Lanza massacrò 26 persone, anche se subito dopo Jones cominciò a gridare al complotto, secondo lui ideato dal movimento contro la circolazione delle armi (Barack Obama in testa), arrivando a definire “attori” i genitori delle vittime e sostenendo che la sparatoria fosse fasulla come una banconota da tre dollari: «Pensano che siamo così stupidi», urlava nel microfono.

Adesso i tribunali del Texas e del Connecticut hanno giudicato Jones responsabile di gravi diffamazioni. Durante i processi, i familiari delle vittime hanno raccontato le minacce di morte, le molestie e i commenti offensivi sui social di cui sono stati fatti oggetto a causa della campagna lanciata da Jones e da InfoWars. Jones è stato condannato a pagare circa un miliardo di dollari di risarcimento per aver affermato che quel massacro fosse una bufala e in aula ha riconosciuto che la sparatoria era «reale al 100 per cento», esprimendo rammarico per le proprie dichiarazioni. Intanto, però, al pubblico dei suoi programmi continuava a ripetere: «Davvero io non so cosa sia successo là». E riguardo alla condanna: «Ho già detto che mi dispiace centinaia di volte, e adesso ho finito di dire che mi dispiace».

Già nel 2017 Jones aveva fatto ammenda, dopo aver promosso il fake “Pizzagate” secondo cui un ristorante di Washington era la centrale di un giro di abusi sessuali su minori gestito da Hillary Clinton e dal presidente della sua campagna elettorale, John Podesta. Poi nel 2018 era stato denunciato per aver sostenuto che l’investimento automobilistico che uccise la manifestante antirazzista Heather Heyer al raduno di Charlottesville fosse stato organizzato dalla Cia per indebolire Trump. Nell’occasione il presidente si era mobilitato: «Sei un uomo incredibile. Non ti deluderò».

Adesso questo parassita delle menti americane incassa un colpo che lo spedisce al tappeto. Ma all’inizio dell’anno la società madre di InfoWars – la Free Speech Systems – ha dichiarato bancarotta in vista della sentenza su Sandy Hook, nel tentativo di prolungare il contenzioso civile. E Jones va dicendo di essere povero in canna e di non avere di che risarcire per i danni provocati. Il punto davvero interessante riguarda però la chiamata a rispondere in solido delle affermazioni fatte pubblicamente, offensive e pericolose come quelle pronunciate da Jones. In giro ci sono migliaia di troll di maggiore o minor peso, che ora rifletteranno un po’ di più prima di lanciare l’ennesima crociata diffamatoria o prima di sparare la nuova teoria del complotto.

Trump-il-bugiardo non pagava prezzi, nemmeno politici, per le sue falsità e coagulava persone pronte a credergli. Ora Alex Jones continuerà a godere di ampia protezione della sua libertà di parola ai sensi della Costituzione, perché questa è l’America. E potrà sempre parlare di ciò che vuole. Ma lui e quelli come lui potrebbero imparare che, anche in regime di post-verità, le parole continuano ad avere peso. Economico, se non altro. Che l’immunità non è garantita. Che le sentenze caleranno come ghigliottine sui loro business. Che essere individuati come untori delle falsità, può costare carissimo. C’è da scommettere che, se la cosa prende piede, si assisterà a un inconsueto ritorno in scena di un atteggiamento dimenticato: la prudenza.

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