Prova ad abbozzare sorrisi davanti alla stampa Ivan Demerdzhiev, ma il suo volto è teso e le risposte nervose, con la traduttrice in palese difficoltà. Il ministro dell’Interno bulgaro, insieme al suo omologo romeno, esce sconfitto dalla riunione in cui si è deciso il futuro di Schengen, l’area di libera circolazione più grande del mondo. Dal primo gennaio 2023 vi farà parte anche la Croazia, ma non Bulgaria e Romania, che restano fuori per i veti di Asutria e Paesi Bassi.
Lo spazio Schengen, creato nel 1985, è un pilastro del mercato unico europeo: tra i Paesi che vi aderiscono è possibile muoversi senza la necessità di controlli frontalieri. La compongono quasi tutti i Paesi dell’Unione Europea (23 su 27 con la Croazia), più Svizzera, Liechtenstein, Norvegia e Islanda.
Essendo inserito nella legislazione comunitaria, tutti i Paesi dell’Ue sono tenuti a entrarvi, tranne l’Irlanda che ha negoziato una clausola di opt-out. Le altre tre nazioni fuori da Schengen rimangono escluse perché non ritenute finora in grado di applicare le regole comuni: un’adeguata gestione delle frontiere esterne, la condivisione delle informazioni sulla sicurezza e un’efficiente cooperazione di polizia. Per entrare serve infatti l’assenso unanime di tutti i membri dell’Ue che già ne fanno parte.
La situazione più complicata è quella di Cipro, il cui territorio è diviso in due parti, con la Turchia che sostiene la Repubblica di Cipro del Nord e l’Ue che non ne riconosce la legittimità. Romania e Bulgaria invece, che formano parte dell’Ue dal 2007, devono semplicemente convincere gli altri Stati membri di essere «pronte» all’adesione anche a Schengen.
Ci provano da oltre un decennio senza successo, nonostante alcuni passi in avanti. L’estate scorsa, Sofia e Bucarest hanno aderito al sistema di visti comune di Schengen come «partecipanti di sola lettura», una formula che consente loro di accettare l’ingresso di stranieri con un visto Schengen, ma non di emetterne di propri.
Poi sono arrivati gli endorsement: quello della Commissione europea, che ha raccomandato l’ingresso dei due Paesi, e quello del Parlamento che lo ha sostenuto con una risoluzione approvata a maggioranza schiacciante (547 voti a favore, 49 contrari e 43 astenuti).
Eppure, al momento decisivo, qualcuno si è tirato indietro. Nel voto tenutosi al Consiglio Affari interni di Bruxelles, il ministro austriaco si è opposto all’ingresso di Romania e Bulgaria, quello olandese alla sola Bulgaria. Abbastanza per bloccare il processo e scatenare le frustrazione di romeni e bulgari, tra l’altro «sorpassati» dai croati, che sono entrati nell’Ue nel 2013 e dentro Schengen dieci anni dopo.
Il ministro bulgaro ha assicurato che il dialogo continuerà e si aspetta di sbloccare la situazione nel 2023, ma ha anche adombrato «possibili contromisure» se così non dovesse essere, senza fornire in ulteriori dettagli in merito. Per la Romania è sceso in campo direttamente il presidente Klaus Iohannis, che ha definito il veto austriaco «inspiegabile, deprecabile e ingiustificato», richiamando perfino il proprio ambasciatore a Vienna.
La sensazione a Sofia e Bucarest è quella di scalare una montagna senza mai poter arrivare alla vetta. Nel 2011 la doppia candidatura fu bocciata da Francia, Germania, Finlandia, Svezia, Paesi Bassi e Belgio per preoccupazioni relative alla corruzione, alla criminalità organizzata e alle riforme giudiziarie. Poi le riforme e i progressi compiuti dai due governi hanno progressivamente smorzato l’opposizione, tanto che la Commissione europea ha confermato il soddisfacimento di tutte le condizioni tecniche necessarie. Non abbastanza, però, per ottenere l’approvazione all’unanimità.
Immigrazione e corruzione
Il veto del governo olandese, circoscritto soltanto alla situazione della Bulgaria, riguarda problemi legati a corruzione e rispetto dello Stato di diritto nel Paese balcanico. Quello austriaco è invece molto più problematico perché poggia su una questione più ampia, difficilmente risolvibile dai due governi dell’Europa orientale: i flussi migratori.
L’Austria ha visto un grosso incremento delle richieste d’asilo presentate ai propri confini, che potrebbero raggiungere le 100mila unità ques’anno rispetto ai 40mila del 2021. Una situazione paradossale, perché il Paese è circondato da altri Stati che appartengono all’Area Schengen, tenuti secondo le attuali leggi in materia a registrare i migranti e ricevere le loro eventuali richieste di asilo.
Il governo di Vienna lamenta un sistema malfunzionante e per accelerarne il cambiamento utilizza il suo diritto di veto in un ambito collegato. Una pratica piuttosto abituale nella politica europea, come spiega a Linkiesta una fonte comunitaria.
«Il sistema attuale non funziona: l’Austria ha avuto più di 100mila attraversamenti illegali del confine, 75mila dei quali sono persone non registrate. A questo punto dobbiamo migliorare in modo significativo Schengen, prima di allargarlo», ha detto al suo arrivo a Bruxelles il ministro austriaco Gerhard Karner. Il suo governo ritiene che circa il 40% dei migranti in arrivo passi, lungo il proprio itinerario, attraverso i territori di Romania e Bulgaria: aprire loro le porte di Schengen significherebbe quindi facilitare questi transiti.
Ma così facendo si lega il destino dei cittadini romeni e bulgari a una riforma della politica migratoria molto complessa, che anche nell’ultimo incontro ha registrato scarsi passi in avanti. I ministri hanno discusso i vari aspetti del fenomeno migratorio (strumentalizzazione dei flussi, dimensione esterna, sistema di rimpatri) e secondo la commissaria agli Affari interni Ylva Johansson hanno concordato in linea di principio sull necessità di «trovare un equilibrio tra responsabilità e solidarietà».
Le decisioni concrete al momento si limitano a un aumento del costo del visto per i cittadini del Gambia, come misura punitiva nei confronti di un governo che non coopera abbastanza nell’accettare i rimpatri dei connazionali. Troppo poco persino per definirlo un risultato.