Casse di vino, cesti di frutta secca, salmoni affumicati e tagliati a fette comprati praticamente interi e panettoni da cinquanta euro. E poi i regali, il centrotavola e i cioccolatini. Natale costa quanto una rata del mutuo, con la differenza che paghiamo senza lamentarcene.
La spesa alimentare a dicembre è sempre una voce importante: aumentano le occasioni di consumo, certo, ma aumenta anche il nostro desiderio di riempire le tavole con molto più cibo del necessario. Sembra strano, ma l’abbuffata natalizia esisteva già prima dell’invenzione dei supermercati e della pubblicità.
Probabilmente c’era anche prima dell’anno 1000, quando la cultura greco-romana proponeva l’ideale virtuoso della misura – «accostarsi al cibo con piacere ma senza voracità», come scrive lo storico dell’alimentazione Massimo Montanari nel suo libro La Fame e l’abbondanza –, mentre dall’altra parte d’Europa il modello celtico-germanico aveva l’ideale del «grande mangiatore» come riferimento positivo, di superiorità e forza.
Indovinate da quale tradizione arriva il festeggiamento del Natale? Se noi abbiamo inculcato l’immagine della stalla con il bue e l’asinello, i nordeuropei ci hanno abituato alle celebrazioni abbondanti e gioiose. Così, nel corso dei secoli, qualsiasi persona ricca e povera, di qualsiasi popolazione del mondo, è arrivata a fare propria un’idea del Natale come momento di trasgressione, di abbondanza e di concessione di ogni desiderio gastronomico.
Un’idea che fino a pochi anni fa non aveva a che fare con la qualità del cibo, ma con la quantità. Allora si preparavano tanti piatti diversi per non lasciare inespresso nessun desiderio, ci si riuniva per condividere l’abbondanza come manifestazione di amore e si mangiava fino a stare male. Tutto questo, sempre, prima dell’invenzione dei supermercati, e della bustina di Biochetasi.
Il resto è storia nota: Babbo Natale, il consumismo americano, il boom economico e la pubblicità. È così che l’industria alimentare ha iniziato a cavalcare la voglia di abbondanza tipica delle feste che si mescolava alla scoperta di nuove necessità e a una sempre maggiore disponibilità economica di una popolazione in crescita. Avveniva nel mondo occidentale – ma non solo – e avveniva anche in Italia.
La storia del Natale è una storia cristiana, culturale e popolare, e al tempo stesso è una storia contemporanea di consumi alimentari. E in questa storia ci sono marchi che resistono sulle nostre tavole da tempo e hanno contribuito a costruire l’immaginario felice del Natale italiano.
Bauli
Nel 1922 Ruggero Bauli, figlio di un pasticcere, avvia la sua attività, a Verona, dedicandosi alla produzione di un dolce antico ma rivisitato in chiave moderna da un altro imprenditore veronese, Domenico Melegatti. Che nel 1894 aveva fondato la sua impresa focalizzata sulla produzione del pandoro, registrandone il marchio. Si trattava di un dolce tipico di Natale, ma privo di quelle influenze medievali che caratterizzano i dolci delle feste (canditi, uvetta, cannella e spezie varie) e forse per questo diventerà in poco tempo un prodotto conteso tra i pasticceri, compreso il signor Bauli, che investirà molte energie nella sua impresa.
Gli anni passano e nel 1927 l’Italia assiste a un naufragio: il transatlantico Principessa Mafalda, diretto in Argentina, affonda; tra i superstiti c’è Ruggero Bauli, che però perde tutti i suoi beni. Il signor Bauli tornerà a Verona solo dopo dieci anni per riaprire la pasticceria. Sarà un successo.
Alberto, Carlo e Adriano Bauli sono la seconda generazione dell’azienda, che nel 1968 arriva in tv con un carosello del lunedì sera visto da ventuno milioni di spettatori. Nelle radio italiane il tormentone di quell’anno è Azzurro di Adriano Celentano, in tv il Natale si infiamma con Mina che canta Bianco Natale, mentre dallo spazio arrivano i primi auguri dall’Apollo 8.
Intanto Bauli da pasticceria diventa industria, e con la tv commerciale di Silvio Berlusconi che diffonde la programmazione della pubblicità, cosa ancora inedita all’epoca, si ha un vero e proprio boom. Da piccola l’azienda si ingrandisce, con fatturati inaspettati. Il pandoro Bauli si consacra sempre di più come un’icona, con la sua confezione a tronco di cono rosa con la scritta bianca e lilla.
Il 1985 si apre con la nevicata che verrà definita “del secolo” per l’Italia settentrionale, mentre al Sud gli attentati di mafia non accennano a smettere. L’estate di quell’anno vedrà un nuovo presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, e per Natale Bauli organizza una delle campagne più importanti della sua storia, con investimenti di oltre dieci miliardi di lire.
Nell’azienda inizia a radicarsi l’idea e l’immagine, di un Natale fatto di valori, famiglia e condivisione, ma bisognerà
aspettare il 1988 per lo spot che passerà alla storia con il suo jingle “Ba Ba Ba Bauli”. In quello spot un gruppo di bambini (tra cui una piccola Ilary Blasi e un piccolo Elio Germano) canta con un Babbo Natale in borghese.
Per tutti gli anni Novanta, in Italia, l’inizio delle feste sarà decretato dallo spot Bauli con il suo jingle rivisitato ma fedele alla tradizione. Gli italiani continueranno a cantare il Natale di Bauli anche nel 2005, con il lancio di “A Natale puoi”, una vera canzone che diventerà un classico del Natale.
Superati gli anni Dieci, con uno stato d’animo più sospettoso e meno sognante, Bauli propone uno spot che mette al centro i dissapori tra due sorelle. È il 2017. Ma un pandoro è in grado di sanare tutto e far vedere il lato positivo del Natale. Quell’anno, a farci di auguri in tv è il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Nel 2022, esattamente a cento anni dalla nascita di Bauli, lo spot mette al centro l’isolamento sociale degli adolescenti con una campagna che per la prima volta giunge al suo apice senza la tipica confezione lilla, ma con una personalizzata e con un messaggio che celebra l’inclusione: «C’è un Natale per ognuno di noi». Anche per il centenario pandoro Bauli è chiaro come la diversità sia ricchezza.
L’ennesimo segnale di un’Italia che lavora bene e che è sempre un passo avanti rispetto a chi la governa.
Ferrero Rocher
Nel dicembre del 1982 il gruppo musicale Abba si scioglie mentre inizia a diventare solido il mercato di un cioccolatino che diventerà presto il più famoso al mondo. Si tratta di un prodotto italiano lanciato proprio nell’anno in cui l’Italia vince i Mondiali di calcio: la Coppa del mondo e quella sfera dorata con dentro una pralina sono destinati a rimanere nella storia. Il Natale del 1982 sarà il primo a vedere sulle tavole italiane il Ferrero Rocher.
Dopo aver inventato la Nutella, Michele Ferrero avrebbe potuto passare il resto della vita a non fare niente se non mangiarla, e invece ha ben pensato di creare anche un cioccolato diabolico, talmente buono da mettere d’accordo chiunque sul pianeta.
È l’alba di un’epoca in cui tutti vogliono ostentare il benessere economico e un’opulenza che forse non ci sono. Con il suo geniale cartiglio dorato, il Ferrero Rocher regala il sogno del lusso accessibile, cambiando la percezione del cioccolatino e trasformandolo in una specie di status symbol.
Per il lancio bisogna però aspettare il 1988 con uno spot ambientato in un’ambasciata, durante un ricevimento. È lì che vedremo per la prima volta quello che poi sarà il sogno di tutti noi: la piramide dorata di Ferrero Rocher con il sottofondo del celebre jingle. La pralina con il cuore di nocciola, ricoperta da wafer, crema di nocciola e gianduia e uno strato esterno di cioccolato e granella di nocciole è davvero buona, ma a poco sarebbe servito il suo gusto se non fosse stato costruita attorno un’immagine così forte.
Il pasticcino – così lo chiamava Michele Ferrero – diventa il desiderio di tutti e tocca l’apice del successo con lo spot del 1992, che ha come protagonisti un’elegante signora vestita di giallo e il suo maggiordomo, Ambrogio. Da qui, tutti non faremo altro che sognare montagne di Ferrero Rocher che sbucano automaticamente da angoli improbabili dell’auto o di casa. Inizieremo a guardare con sospetto le nostre madri che, stranamente, non indossano cappelli a tesa larga. Il Natale italiano del 1992 vedrà mani piene di Ferrero Rocher usati come preziosi doni per lo scambio di auguri.
Nello stesso anno i telegiornali parleranno invece solo di mani pulite.
L’immaginario premium di Ferrero Rocher verrà portato avanti per molti anni e ogni anno, nel periodo che precede le feste, avremo spot ambientati in contesti formali ed eleganti. Il 2000 è l’anno di Richard Gere.
Il 2002 il cioccolatino compie trent’anni e quel Natale non facciamo che ricevere in regalo portamonete e convertitori lira/euro. Abbiamo da poco cambiato moneta e siamo confusi, ma alzatine e porta-cioccolatini continuano a riempirsi di Ferrero (con anche Mon Chéri e Pocket Coffee, rispettivamente figli degli anni Cinquanta e Sessanta). 15.000 lire per una confezione Ferrero, cioè 7,74 Euro. Negli anni a seguire la crisi economica e la sempre maggiore attenzione alla qualità sposteranno il focus della comunicazione verso gli ingredienti di un prodotto e il calore della famiglia più che sul concetto di lusso.
E si arriva al 2022: lo spot celebra i sognatori e coloro che vanno alla ricerca del piacere e che sanno goderselo. Il focus rimane sul prodotto, ma quello che non tramonta in quarant’anni di pralina è quella benedetta piramide (di plastica pesante e un po’ fuori dal mondo) dorata che ancora oggi riesce a esercitare un fascino forte su tutti noi nati prima degli anni Duemila. E così, in un Paese dove i governi durano pochi mesi, i cioccolatini resistono per decenni.
Coca-Cola
È il 1931 quando all’azienda Coca-Cola viene in mente di sfruttare un personaggio già esistente e creato da un pubblicitario. In quel momento il mito di Babbo Natale diventa popolare e presto sarà l’icona stessa del Natale consumistico. Coca-Cola, come i prodotti Ferrero, non ha una stagionalità legata al Natale, ma la comunicazione e il marketing costruiscono un immaginario talmente forte ed evocativo per quel periodo da farlo diventare uno dei prodotti immancabili dei pranzi delle feste.
La prima bottiglia italiana viene riempita a Roma nel 1927 e da quel momento iniziò il processo che in molte altre parti del mondo era diventato inarrestabile. Il legame tra Italia e Coca-Cola si materializza solo nel 1971, nelle colline romane, dove viene girato lo spot Hilltop che riuniva giovani volti da tutto il mondo per un messaggio globale che diventerà un successo. Proprio in quell’anno nasce la tassa più evasa del Bel Paese: l’Iva.
Il Natale degli italiani è a tavola ed è sulla tavola che Coca-Cola trova maggiore spazio, iniziando una lenta educazione allo stile americano in cui la bibita si vuole sostituire all’acqua.
Il fascino del modello Stelle-e-strisce è forte dalle nostre parti e mentre a Milano apre Burghy, il primo fast food dal tipico modello americano, a casa la Coca-Cola non manca mai e di certo non a Natale. Nel 1984 il famoso jingle Hilltop viene proposto in versione natalizia e in lingua italiana: tutti cantano gli auguri Coca-Cola, forse più di una delle hit dell’anno, come Fotoromanza della giovane Gianna Nannini.
In quegli stessi anni arriva anche la Coca-Cola light, ma siamo ancora lontani dal preoccuparci degli zuccheri. Bisognerà attraversare gli anni Novanta, quando viene introdotto un altro elemento iconico del Natale rosso Coca-Cola: il tir.
«Natale sta arrivando, arriva Coca-Cola» canta il jingle, convincendoci che non c’è Natale senza bottiglia rosso fuoco sul tavolo. Tutti sognano di vedere passare il camion che illumina di festa ogni strada innevata. Sotto Roma forse nessuno ha mai visto la neve, ma ci crediamo comunque tutti che possa accadere, perché quello che non può la natura, può l’illusione di una multinazionale. Il fascino del mezzo di trasporto è così forte che torna con un rilancio nel Natale 2000 e ritorna ancora oggi, fisicamente, nelle principali città italiane.
Intanto Coca-Cola fa i conti con una popolazione che si guarda bene dal bere zuccheri durante le feste. La popolazione italiana è più sovrappeso rispetto agli anni Settanta e Ottanta, ma non smette di bere soft drink, magari in versione senza zucchero. Intanto, però, l’industria fa i conti con le guerre e la crisi energetica che li lascia senza bollicine per le bibite. È in corso una crisi, ma – ehi! – facciamo finta di niente ché dobbiamo festeggiare il Natale.
Ovunque farete la spesa, qualsiasi cosa mangerete, buon Natale!