Un anno e mezzo. In un anno e mezzo le opposizioni di governo (leggi Partito democratico e Terzo Polo) devono costruire un progetto alternativo a quello di Giorgia Meloni, che più che un progetto è un assemblaggio messo su alla bell’e meglio – lo abbiamo visto alla conferenza stampa di fine anno, una delle più noiose degli ultimi anni. Un anno e mezzo è il tempo che separa questo finale di 2022 alle elezioni europee del 2024, primo vero test per il melonismo di governo, vero bivio della legislatura.
Non c’è dunque molto tempo. Carlo Calenda e Matteo Renzi hanno ben chiara la scadenza: è la prova decisiva anche per il Terzo Polo, lì si capirà se il progetto italiano di Renew Europe ha un futuro oppure no, allora si saprà se c’è davvero un pezzo d’Italia che investe su di loro o meno. Sarà il trampolino verso la grande politica o lo scivolo verso l’irrilevanza. È una prova decisiva, senz’appello.
Il 2023 dunque dovrà essere per Calenda e Renzi l’anno di un protagonismo all’insegna della coesione crescente tra Azione e Italia viva, tuttora un po’ pigramente separate, al momento ancora espressioni di gruppi dirigenti, troppo poco radicati, popolari. Una dignitosissima rappresentanza parlamentare e poco più. Non basteranno i tweet. Servirà la forza di un partito, ancorché in formazione, con tutto quello che ne consegue: programmi, organizzazione, strumenti, persino disciplina.
Ci vorrà un salto di qualità, la fine dell’età dell’innocenza e dei rancori. O i riformisti diventano adulti o non sopravviveranno a loro stessi.
E d’altro canto, l’anno che viene è quello davvero decisivo – un aggettivo che si usa sempre ma stavolta non ce n’è un altro – per il Partito democratico che terrà il 19 febbraio primarie che sono avvolte nel disinteresse del Paese in modo inversamente proporzionale all’agitazione che regna tra gli apparati.
Stanno facendo una campagna congressuale finta, in attesa della conta finale: non torniamo qui sugli errori di Enrico Letta anche dopo la batosta elettorale. Ma una volta chiusa questa pratica potrebbe seguirne uno scatto di apertura e di ricerca, di «rigenerazione» come si usa dire adesso; oppure il prolungamento di un’agonia politicista, di un tran tran politicamente innocuo per la maggioranza di governo e sentimentalmente sconnesso dalle ansie del popolo.
Non è improbabile nemmeno che si avrà un po’ di rigenerazione e un po’ di continuismo, qualche faccia nuova in mezzo a tante facce vecchie, magari con un’inedita diarchia al comando tra vincitore e vinto, probabilmente in questi caso un tandem Bonaccini-Schlein. Il punto di fondo però riguarda cosa vuole fare l’opposizione da grande, è su questo che si misurerà la forza del/della nuovo/a leader perché è sulla forza delle sue ambizioni che il Pd potrà contare se vorrà sventare l’ora ostile di Giuseppe Conte.
Il quale proseguirà la sua marcia nel deserto del populismo e del consenso a buon mercato illudendosi che sia una scorciatoia quando in realtà è uno stagno in cui annegare chiacchiere in libertà, nulla che faccia i conti con la storia, al massimo con la cronaca, per questo lui è fuori dall’ottica del riformismo di governo.
Si tratta dunque, per Pd e Terzo Polo, di riannodare ciascuno per proprio conto i fili di un progetto per l’Italia e la sua modernizzazione, quei fili trovati a suo tempo da Walter Veltroni e dipanati poi da Matteo Renzi e Mario Draghi, e con questi sfidare il centrodestra sul terreno del governo, quel centrodestra meloniano che di progetti veri in tasta non possiede.
C’è dunque come un vuoto nella politica italiana che non riguarda la gestione del potere quotidiano – lì Meloni, Salvini è Berlusconi bastano e avanzano – ma è un vuoto di idee sul futuro del sistema industriale, delle infrastrutture, della conoscenza, del sistema sanitario, della ricerca. E anche dei diritti, della giustizia e delle riforme istituzionali: cosa contrappone l’opposizione al vago presidenzialismo di Giorgia Meloni?
Accetterà la sfida parlamentare o si rifugerà sull’Aventino? E così il vuoto va riempito su tutto il resto: l’idea di Giorgia è il galleggiamento dell’Italietta che si fa i fatti suoi, quella dei riformisti è il Paese che raccoglie e vince la sfida della modernità. C’è un anno e mezzo. Bisognerebbe cominciare a correre, se non si vuole arrivare al traguardo con il fiatone e perdere un’altra volta.