Metodo DohaL’Ue non è l’unico bersaglio della corruzione del Qatar

Lo scandalo che ha travolto Bruxelles e le sue istituzioni è solo l’ultimo di una serie di casi sospetti che vede coinvolto il piccolo Paese mediorientale

AP/Lapresse

Il Qatargate che ha travolto le istituzioni europee dovrà passare dalle mani di giudici e avvocati ma è già diventato una delle storie più insolite e delicate per europarlamentari, commissari, funzionari di Bruxelles e varie famiglie politiche. Sull’altra riva del fiume, invece, i sospetti di corruzione fanno ormai parte dello scenario locale: la famiglia reale del Qatar da anni è abituata a destare sospetti, a far discutere per i suoi modi di fare politica e di costruire relazioni con Stati e istituzioni.

Prima che il dibattito si spostasse sui diritti Lgbtq+ o sulle morti dei lavoratori, si era parlato dei Mondiali in Qatar per le accuse sull’assegnazione del torneo al piccolo Paese del Golfo. Già nel giugno 2011, a sei mesi dalla decisione della Fifa, il Sunday Times denunciava l’opera di corruzione del Qatar nei confronti dei leader delle federazioni del calcio africano: Issa Hayatou, che dal 1988 era a capo della Caf, l’omologa africana della Uefa, aveva ricevuto un milione e mezzo di dollari per votare per la Coppa del Mondo in Qatar. La stessa cosa era successa anche con altri due grandi nomi della politica del calcio africano, l’ivoriano Jacques Anouma e il nigeriano Amos Adamu.

Che gran parte dell’Africa abbia sostenuto la candidatura di Doha non ha mai stupito nessuno. Dal 2007, il governo del Qatar, attraverso la prestigiosa Aspire Academy, versa grandi quantità di denaro nelle casse delle federazioni locali grazie al progetto Football Dreams, ufficialmente un programma di scouting per reclutare giovanissimi talenti da far crescere a Doha. Da quando è stato lanciato, questo programma – che per il Qatar è uno “strumento umanitario” per togliere i giovani dalla povertà – ha ricevuto numerose accuse, da chi lo considera uno strumento di sfruttamento delle risorse umane dell’Africa a chi invece lo ritiene una leva del soft power di Doha, oltre che un metodo per corrompere la politica locale.

D’altronde, il confine tra politica e corruzione è spesso labile: in quale momento investire in un determinato settore o Paese per ricavarne benefici più o meno diretti smette di essere legittimo? Tra i principali difensori del Qatar in questi giorni c’è per esempio Paul Kagame, il noto Presidente del Ruanda, che è anche accusato di repressione del dissenso. Kagame è volato a Doha a inizio Mondiali per salutare l’emiro, e più di recente ha dichiarato che contro il Paese arabo c’è stato un «incessante assalto di propaganda negativa». Il leader del Ruanda difende il Qatar in maniera non tanto dissimile da quanto fatto da Eva Kaili al Parlamento europeo: dopotutto, la famiglia Al Thani sta investendo tantissimo nel nuovo aeroporto di Kigali e nello sviluppo del turismo nel Paese africano, al punto che lo sponsor “Visit Rwanda” campeggia sulle maglie del Paris Saint-Germain.

Ma non è solo l’Africa, ovviamente. In questi anni il Qatar avrebbe corrotto dirigenti sportivi in quasi tutto il mondo, anche nell’area Concacaf, quella del Nord e Centro America. Sempre nel 2011, una nuova indagine fece emergere un piano di corruzione che coinvolgeva Jack Warner, l’uomo più potente del calcio di questa regione, presidente Concacaf dal 1990. D’accordo con Mohamed bin Hammam, presidente della confederazione asiatica e capo assoluto del calcio in Qatar, Warner avrebbe organizzato alcuni incontri con i leader delle federazioni caraibiche durante i quali Bin Hammam avrebbe avuto modo di corrompere diverse persone. In cambio, il dirigente qatariota voleva i voti per essere eletto presidente della Fifa al posto di Blatter, e guidare così l’associazione durante gli storici Mondiali del 2022, di cui lui stesso era in un certo senso il vero ideatore.

Non c’è un continente che non abbia ricevuto soldi dal Qatar, a quanto pare, e pure le ultime rivelazioni sull’Europa in realtà suonano nuove fino a un certo punto. Nell’estate 2015, Joseph Blatter, a sua volta al centro all’epoca di accuse di corruzione, assicurò che dietro l’assegnazione del Mondiale al Paese arabo c’era lo zampino addirittura del Presidente della Repubblica francese Nicolas Sarkozy. Sarebbe stato lui a organizzare il famigerato pranzo all’Eliseo a cui erano presenti, oltre allo stesso Blatter, anche il capo della Uefa Michel Platini e l’allora principe qatariota (oggi emiro) Tamim bin Hamad Al Thani. E in quell’occasione si sarebbero formalmente decise sia l’impegno della UEFA per indirizzare il voto delle federazioni europee verso Doha, sia l’acquisizione del PSG da parte del fondo sovrano qatariota. Blatter dice che, oltre a questo, ci fu un altro intervento decisivo della politica europea in favore del Qatar, e fu portato avanti da Christian Wulff, ai tempi Presidente federale della Germania.

Il quadro che ne emerge è abbastanza inquietante, e racconta bene la pervasività del potere qatariota nel mondo. Attraverso l’economia, Doha ha saputo rendersi indispensabile in varie aree strategiche del pianeta, e i Mondiali sono stati solo uno dei banchi di prova di questa rete di relazioni. Ma parlare di corruzione non è mai facile. Tutte le accuse piovute addosso al Qatar in questi ultimi dodici anni non hanno infatti avuto alcuna conseguenza legale concreta.

La Fifa aveva anche affidato un’inchiesta interna all’avvocato indipendente Michael Garcia, che si era avvalso della collaborazione di Phaedra Almajid, la fonte della prima inchiesta del Sunday Times del 2011, poi costretta a ritrattare (pare) dietro minacce. Nel settembre 2014, dopo oltre due anni di lavoro, Garcia consegnò il suo report sulla controversa assegnazione dei Mondiali in Qatar al responsabile etico della Fifa Hans-Joachim Eckert, ma quando il documento venne pubblicato l’autore lamentò che fosse stato pesantemente tagliato, alterando il senso del suo lavoro. Lo scandalo che sembrava aver provato la volontà della Fifa di nascondere la polvere sotto il tappeto finì però per sgonfiarsi nel 2017, quando la Bild diffuse il report completo, rivelando che non conteneva nulla più che supposizioni e testimonianze, e nessuna prova.

Per cui, mentre i Mondiali in Qatar stanno per terminare, l’unica cosa certa che possiamo dire sulla corruzione di Doha è che tutti assicurano esista, ma nessuno l’ha mai dimostrato. Ogni probabilità di ribaltare questo trend risiede oggi nelle borse piene di contanti rinvenute in casa dei funzionari di Bruxelles.