E se non fosse più il contadino, stivali di gomma e zappa in mano, a controllare che il frumento cresca sano, ma lo facesse un drone? Al di là della nostra romantica idea di agricoltore questa è una realtà che – come abbiamo spiegato qui – già esiste. E a sentire gli esperti, sarà sempre più diffusa.
Parliamo di agricoltura 4.0: software che monitorano la composizione del terreno, sensori che rilevano l’acqua in una coltura e macchine che inviano gli input per trattare o meno la pianta con un antiparassitario. Tecnologia e intelligenza artificiale permeano ogni aspetto della vita umana, campo di patate compreso.
L’ultimo rapporto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) segnala che il numero delle persone che soffrono la fame a livello mondiale è salito a 828 milioni nel 2021, circa 46 milioni in più dal 2020. E scrive che serve «il ripensamento del sostegno agricolo e alimentare mirato verso quegli alimenti il cui consumo pro capite non corrisponde ai livelli raccomandati per una dieta sana».
Una situazione insostenibile anche per il World food programme (Wfp) che parla di «crisi alimentare diffusa» innescata da: cambiamento climatico, strascichi della pandemia, conflitti nel mondo ed effetti a catena della guerra in Ucraina. In questo quadro non edificante si inserisce anche l’aumento stimato della popolazione mondiale che entro il 2050 raggiungerà i 10 miliardi. Tradotto significa: più bocche da sfamare.
L’agricoltura 4.0 potrebbe aiutare a ripensare la filiera alimentare grazie a un aumento della produttività strettamente legato al controllo della porzione di suolo coltivata. Lo scopo insomma è quello di produrre in modo sostenibile ed efficiente, grazie all’elaborazione di un grande numero di dati provenienti dal campo stesso. Ogni fase della produzione è interconnessa alle altre, gli oggetti diventano “intelligenti”, sono in grado di scambiarsi informazioni determinando un intervento più specifico e mirato sulla coltura.
Per farlo si utilizza l’Internet of Things (IoT), tecnologia che consente a strumenti diversi (droni, sensori, satelliti) di connettersi e comunicare tra di loro. Non solo. L’agricoltore ha a disposizione i Big Data, informazioni e dati raccolti dai macchinari e poi elaborati dall’intelligenza artificiale che a sua volta può servirsi di robot o di software gestionali. C’è poi lo spazio Cloud dove tutti questi dati possono essere stoccati, in rete, e messi al servizio di altri agricoltori. Queste sono le varie tecnologie che guidano il lavoro pratico di sensori, droni e del caro buon, ma non più vecchio, trattore.
Le applicazioni pratiche sono ampie e alcuni esempi spiccano più di altri. L’azienda californiana Verdant Robotics ha costruito un robot che distingue le colture dalle erbe infestanti e usa il novantacinque per cento in meno dei prodotti chimici normalmente utilizzati. Cura cinquecentomila piante in un’ora e, mentre lo fa, le memorizza, costruendo e archiviando una copia digitale del campo. Questo permette agli agricoltori di geolocalizzare ogni pianta e di decidere se e come intervenire in caso di malattie.
In Brasile, invece, c’è chi ha scelto di puntare sui robot volanti. Qui i droni sono utilizzati per ridurre l’uso di erbicidi del 52 per cento nei campi di soia. In circa novanta minuti di volo il senseFly eBee X riesce a mappare fino a cinquecento ettari, circa settecento campi da calcio. Anche l’Unione europea si muove verso queste tecnologie e finanzia progetti che supportano un’agricoltura moderna. Tra questi c’è “Pegasus”, che fa parte del programma Horizon 2020.
Ci ha lavorato il Crea, il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria. È il più importante ente di ricerca dedicato all’agroalimentare in Italia. Uno dei casi di studio riguarda la filiera del pomodoro tra Piacenza e Modena. «Ci siamo concentrati su un grosso problema – spiega a Linkiesta Francesco Mantino, responsabile scientifico del Crea per il progetto Pegasus – che è quello del risparmio dell’acqua». Qui la tecnologia 4.0 fa la sua parte: i sensori trasmettono all’azienda agricola i dati sull’umidità del terreno. Così il consorzio idrico eroga la quantità d’acqua che serve in quel momento. Risultato: zero spreco.
Nei terreni molto scoscesi, con pendenze estreme, desertici o paludosi coltivare sembra invece impossibile. Eppure l’agricoltura 4.0 promette non solo di accettare questa sfida, ma addirittura vincerla. Consideriamo due opposti: il mare e il deserto. Entrambi presentano condizioni estreme per coltivare. E invece nel mare che bagna Noli, in Liguria, a dieci metri di profondità ci sono: basilico, pomodori, fagioli, zucchine, e piante aromatiche. Dove? All’interno di sfere ancorate al fondale che formano l’Orto di Nemo. Sono serre con strutture metalliche e cupole trasparenti che permettono il passaggio della luce, fondamentale per la fotosintesi.
Qui si crea un microclima autosufficiente: la luce solare favorisce l’evaporazione dell’acqua e scalda l’aria all’interno delle cupole, si forma l’umidità sulle pareti e da cui l’acqua dolce. Dove invece l’umidità va ricreata è il deserto. Aqaba, Giordania, è famosa per le spiagge del Mar Rosso, ma ha un serio problema di terreni coltivabili, per la maggior parte aridi. Sahara forest project ha portato qui alcune delle imprese agricole più tecnologiche del Medio Oriente, con serre che producono vari tipi di ortaggi.
Lungo la costa del Mar Rosso in abbondanza ci sono due cose: l’acqua salata del mare e l’aria secca del deserto. La seconda passa tra cuscinetti di acqua marina che la raffreddano e la rendono umida e così entra nelle serre. Per irrigare si sfruttano invece l’evaporazione e la condensazione dell’acqua salata.
Se tutto questo non bastasse, sopra le serre vi sono impianti di raccolta dell’umidità che si forma durante la notte e che viene trasformata in acqua dolce. Tutta la struttura è alimentata da una torre rivestita di pannelli solari. La questione energetica è infatti un punto da considerare. Quanto sono energivore le aziende che utilizzano potenti software per elaborare le informazioni che arrivano dal campo e le stoccano in un database attivo 24 ore al giorno?
La risposta è: dipende. «Vanno sempre distinti i costi dai benefici, perché certamente l’energia che serve è molta, ma si può recuperare con soluzioni green». A dirlo è Chiara Corbo, direttrice dell’osservatorio Smart AgriFood che non pensa ci sia un problema legato in modo specifico al tema dell’energia «perché si deve considerare il fenomeno in maniera più complessa: queste tecnologie riducono in modo significativo l’inquinamento di suolo, aria e acqua (si usano molti meno pesticidi) e di consumo idrico».
Secondo uno studio di AgriFood, «tra i fattori che guidano l’innovazione nel settore agroalimentare c’è la richiesta di maggiore trasparenza e sicurezza. La tracciabilità è uno degli ambiti in cui le aziende stanno maggiormente utilizzando il digitale. Lo chiede anche il consumatore». Oltre metà degli italiani (cinquantatré per cento) ricerca sempre o spesso per sapere da dove arriva il cibo che acquista. Il trentacinque per cento lo fa ogni tanto e soltanto il dodici per cento non è interessato.
Quando parliamo di tecnologia non possiamo ignorare il tema della cyber security. Gli strumenti di smart farming di cui abbiamo parlato gettano le basi per “macchine intelligenti” che valutano i dati a loro disposizione e prendono decisioni in autonomia. Perché questo sistema funzioni, serve accumulare e stoccare una considerevole mole di dati.
Ecco allora una delle prime questioni: chi li detiene, un’azienda privata o una pubblica? Lo Stato partecipa in questo o tutto viene lasciato al libero mercato? Le informazioni sono il bene più richiesto in una società interconnessa. Queste non restano quasi mai restano all’azienda che le produce, ma finiscono al proprietario del server che le raccoglie. Entrambi hanno interesse che la produttività agricola aumenti: per il primo significa più prodotto materiale e per il secondo più dati.
Ma le informazioni accumulate dove vanno, e a cosa servono? Qui si apre la seconda questione che riguarda la strategicità dell’agricoltura per lo Stato, da sempre settore importante. Oggi la situazione è ancora più delicata, perché un drone che memorizza morfologia e grandezza di un campo ha tutte le coordinate per geolocalizzarlo, sa cosa viene coltivato e sa come. Sono tutti dati sensibili che fanno gola ad aziende straniere. Nella maggior parte degli Stati che utilizzano forme di tecnologia 4.0 non c’è una normativa specifica che inquadri la raccolta e l’uso dei dati che provengono da questa stessa tecnologia. Per ora i legislatori sembrano stare a guardare.