E così è arrivato anche Emmanuel Macron: nella conferenza stampa congiunta del 1° dicembre alla Casa Bianca che ha preceduto il bilaterale con Joe Biden, il presidente francese ha dichiarato che «vogliamo costruire la pace, e una pace sostenibile significa il pieno rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina, ma allo stesso tempo una nuova architettura per garantire una pace sostenibile a lungo termine». Lo vogliamo tutti con lui, ma non è della pace che qui vogliamo parlare.
Sostenibile e sostenibilità sono il mantra del momento, il tributo allo Zeitgeist, la formula magica che legittima ogni pretesa, il passepartout che apre (qualche volta scassina) ogni porta. Soggetti pubblici e privati, aziende, organizzazioni di qualsiasi tipo, tutti si affannano a qualificare i propri progetti, le proprie iniziative, addirittura sé stessi, come sostenibili.
Sostenibile è primariamente qualche cosa che si può sorreggere, sopportare, affermare, prendere su di sé. Ma da qualche tempo e con crescente intensità è anche qualcos’altro. In relazione all’ambiente, il concetto di sostenibilità – per alcuni studiosi già implicito nella costituzione pastorale Gaudium et spes promulgata da Paolo VI il 7 dicembre 1965, a conclusione del Concilio Vaticano II, dove è detto che “tutti i responsabili […] della organizzazione della vita economica globale” devono essere capaci, tra l’altro, “di prevedere le situazioni future e di assicurare il giusto equilibrio tra i bisogni attuali di consumo, sia individuale che collettivo, e le esigenze di investimenti per la generazione successiva” (GS 70) – venne esplicitato durante la prima conferenza Onu sull’ambiente nel 1972, e chiaramente definito quindici anni dopo nel Rapporto Brundtland (Our Common Future) pubblicato dalla Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo (WCED).
Coordinato dalla socialdemocratica norvegese Gro Harlem Brundtland, all’epoca ministro di Stato (ossia premier del suo Paese) nonché presidente del WCED, il documento stabiliva che “lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”. Uno sviluppo che si può sostenere è uno sviluppo che non altera gli equilibri dell’ecosistema, ma ne garantisce stabilità, capacità di autoregolazione, resistenza e resilienza.
Bene. Ma se dal punto di vista delle scienze ambientali (e di quelle economiche) è facile indicare che cosa corrisponda o non corrisponda ai principi così sanciti, e quindi ciò che è e ciò che non è sostenibile, dal punto di vista dei rapporti internazionali che cosa sarà mai la sostenibilità? Che cosa si intende per “pace sostenibile”? Forse una pace che soddisfi i bisogni (di pace) del presente lasciando alle generazioni future la possibilità di soddisfare i bisogni propri (eventualmente di guerra)? Sarebbe insostenibile.
In realtà nella conferenza stampa alla Casa Bianca il presidente Macron si è espresso in francese e non ha parlato di “paix soutenable”, aggettivo che esiste nel vocabolario transalpino ma con un altro significato (ciò che può essere argomentato o che si può sopportare), bensì – come del resto ha fatto in molte altre occasioni – di “paix durable”. Ora, è vero che se scriviamo su Deepl la parola “sostenibile”, nella colonna della traduzione francese viene fuori “durable”; però “durable” ha come primo intuitivo significato “durevole, duraturo” (la definizione del dizionario Robert è “de nature à durer longtemps” e i sinonimi registrati sono constant, permanent, persistant, stable, profond, enraciné, solide, tenace, vif, vivace, persino, in riferimento a una malattia, chronique): in questo senso ciò che intendeva Macron diventa perfettamente comprensibile, e il dichiarato impegno per la pace perfettamente sostenibile.
Senonché nella versione inglese del suo discorso diramata dalle agenzie la “paix durable” è diventata “sustainable peace”, che gli organi di stampa italiani (e nelle rispettive lingue, immaginiamo, quelli di tutto il mondo) hanno tradotto alla lettera con “sostenibile”. Con il che il campo semantico della “sostenibilità” si estende, arricchendosi di implicazioni ma anche perdendo di univocità e di esatta attinenza alla definizione sancita nel 1987. Una “pace sostenibile” – beninteso, nel “pieno rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina” – non sarà pertanto una pace che soddisfi i requisiti richiesti dal Rapporto Brundtland ma, in senso meno stretto, una pace che soddisfi le diverse parti in causa, che non penalizzi oltre misura nessuno, che stabilisca senza ambiguità regole e punti fermi, che sia sorretta da un impegno anche economico internazionale, che insomma ponga le premesse per essere effettiva e poter durare nel tempo. Cioè che sia durable, come in modo più chiaro e semplice aveva auspicato Macron.
Troppo chiaro e troppo semplice, probabilmente, per una comunicazione affetta da ecolalia compulsiva, che si pasce di tormentoni e frasi fatte e alle mode linguistiche del momento sacrifica volentieri la comprensibilità. E così, accanto al primigenio e paradigmatico “sviluppo sostenibile”, abbiamo ora la “mobilità sostenibile” (preoccupazione di ogni sindaco e assessore ai Trasporti), l’“agricoltura sostenibile” (articolata in diversi settori, per esempio quello dell’“olio di palma sostenibile”), il “benessere equo e sostenibile” (BES, un set di indicatori sviluppato da Istat e Cnel per valutare il benessere di una società dal punto di vista economico, sociale e ambientale) – e fin qui siamo ancora in zona Brundtland. Ma – e qui i contorni della zona si fanno più sfumati – abbiamo pure da qualche giorno, in piazza San Pietro a Roma, il “presepe sostenibile” (directly from Sutrio, Carnia, nessun albero abbattuto per le statuine e la struttura di legno) e sempre a Roma, in piazza Venezia, l’“albero di Natale sostenibile” (“Accendiamo la sostenibilità” è lo slogan, peraltro poco originale, perché da anni sventolato dal comune di Ginosa in Puglia). Abbiamo la “finanza sostenibile” (spiegazioni del caso sul sito della Banca d’Italia), il “risparmio sostenibile” (che ci viene prospettato da Poste Italiane), il “Manifesto per l’editoria sostenibile” (presentato in novembre a Ivrea, capitale del libro 2022, e sottoscrivibile su change.org), il “calcio finanziariamente sostenibile” (cavallo di battaglia della Liga spagnola), il “turismo sostenibile”, la “ristorazione sostenibile”, un discreto numero di “università sostenibili” (che hanno costituito una Rete per “trasformare una precisa scelta politica in un processo trasversale” – qualsiasi cosa voglia dire) e un crescente numero di “città sostenibili”. La lista è lunga e si può allungare a piacere, in ogni campo.
Insomma quanta sostenibilità, troppa sostenibilità. Perché la sostenibilità sarà pure “una scelta di vita ormai imprescindibile”, come si legge sulla rivista ecologista online Greenplanner, ma non è detto che debba essere imprescindibile come scelta linguistica. Ed è vero che in molti casi (non tutti) ha acquistato una pregnanza non altrimenti esprimibile in forma sintetica, ma medèn ágan, come ammoniva il motto delfico, est modus in rebus, ribadiva Orazio: il troppo stroppia, diciamo noi più prosaicamente. Alla fine è proprio la sostenibilità che diventa insostenibile: l’insostenibile pesantezza della sostenibilità.