Il malumore memorabileLa lezione di Barbara Walters per evitare le interviste mosce di oggi

La misura d’un intervistatore è il rancore con cui viene ricordato. E la misura dell’intelligenza dell’intervistato è capire che conviene farsi mettere in difficoltà

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Ogni volta che una persona famosa pubblica sui propri social un’intervista che le è stata fatta, io so che è un’intervista nella quale quella persona non farà brutta figura, quindi noiosissima. Nessuna intervista con cui valga la pena perdere tempo è un’intervista di cui l’intervistato vada fiero. Ogni intervista che valga la pena leggere o guardare è un’intervista in cui l’intervistato inciampa, si rialza, si contraddice, si rende ridicolo, e di cui si vergognerà almeno un po’.

Poi, ovviamente, non esistono le regole: esistono solo le eccezioni. C’è l’intervistato che sa che nessuno legge mai niente – nessuno sui social, nessuno in questo secolo: nessuno – e che quindi condivide con fondata certezza di non lettura un’intervista della quale è previsto ammiriamo il titolo, lo spazio, le foto («guarda, è in copertina, dev’essere uno importante» è una reazione più diffusa di «sì ma leggi cosa risponde alla quindicesima domanda, è proprio un patacca») (se non capite «patacca» dovete frequentare di più la Romagna, o farvela spiegare da Marco Missiroli).

C’è l’intervistatore che l’intervistato lo pescinfaccia e tuttavia non ha mai penuria d’intervistati: chi ha successo ha ragione, da chi ha successo fanno la fila per farsi pescinfacciare. È il principio fondativo di Francesca Fagnani, che ha avuto la furbizia di chiamare il suo programma Belve, e da lì è tutto conseguente: se la tapina di turno prova a sottrarsi al gioco al massacro, la conduttrice può flautare «Beh, io l’ho chiamata qui perché è belva, mica mi farà Violetta-la-timida».

Qualche giorno fa è morta Barbara Walters, e io mi sono prodotta in preliminari finora perché Barbara Walters proprio non so come spiegarvela, in quest’epoca miserabile in cui non sappiamo produrre categorie critiche ma solo paragoni. L’Enzo Biagi d’America? Il Letterman delle signore in tailleur? La Oprah delle bianche? Ecco, quest’ultima decisamente no.

Oprah Winfrey – l’intervistatrice più famosa del mondo tra i due secoli – ha scritto che, senza Barbara Walters, lei non avrebbe mai avuto una carriera, nessuna donna della tv americana avrebbe avuto spazio e successo e senso. Ed è vero. Ma, se c’è una cosa che la più nota opera recente di Oprah – l’intervista a Meghan e Harry – ha reso chiara, è che Oprah non ha imparato niente da Barbara Walters, che sapeva fare l’amica delle celebrità quel tantissimo che era utile a ottenerne la fiducia, ma poi non risparmiava mai una domanda, un’accusa, un rinfaccio di quelli che facevano sospirare il pubblico a casa: ah, brava, gliel’avrei chiesto anch’io.

In questo la tv dà un vantaggio inestimabile: con una telecamera accesa nessuno si alza e se ne va se non gli piace quel che chiedi, nessuno dice «di questo non parlo il mio ufficio stampa l’aveva avvisata», nessuno chiede di rileggere per espungere i passaggi da cui esce peggio. È la ragione per cui i programmi da tv d’assalto, prerogativa della casereccia tv italiana con poco budget e molto sbaraglio, sono inutili: l’intervistato lo si può mettere in difficoltà anche se lo si accomoda in uno studio ben illuminato con trucco e parrucco fatti. Certo, bisogna saperlo fare.

Barbara Walters lo sapeva fare, e infatti non serve dire che era una Mara Venier col piglio di Lucia Annunziata: la conoscete anche se non la conoscete. Vedete suoi video sui social a ogni occasione di polemica. Sean Connery che dice che ci sono casi in cui è bene schiaffeggiare una donna. Donald Trump che dice che non è affatto in bancarotta, è male informata (e lei: ho parlato coi suoi creditori). Il dettaglio interessante è che è il Trump del 1990: senza velleità politiche, solo un ricco cafone, non il cattivo per excellence. Non glielo chiedeva per farsi acclamare dai social che vogliono liberare Barabba: faceva il suo lavoro.

L’incipit d’un romanzo che si portava molto quand’avevo vent’anni diceva che la misura dell’amore è la perdita; la misura d’un intervistatore è il rancore con cui viene ricordato. Alla morte di Barbara Walters, Monica Lewinsky ha raccontato – con parecchio garbo – di quando Barbara fu la sua prima intervista televisiva, in mezzo al casino armato da Kenneth Starr contro Bill Clinton (e contro la ventiquattrenne Monica). «Sottolineai che era la prima volta che mi trovavo nei guai, ero sempre stata una brava ragazza, avevo sempre preso buoni voti, non mi ero mai drogata, non avevo mai rubato ai grandi magazzini. Senza esitare Barbara disse: Monica, la prossima volta ruba ai grandi magazzini». Era un ricordo affettuoso, diceva che erano rimaste in contatto, ma non poteva che partire da lì: da quando la signora Walters aveva fatto il proprio lavoro, dicendo alla sua ospite quel che stavano pensando quelli davanti alla televisione (e quelli erano, solo contando chi la vide quella sera alla tv americana, 74 milioni. Settantaquattro. Sì, era il 1999 e non c’era la frammentazione e lo streaming e la rava e la fava, tuttavia: settantaquattro).

Courtney Love non ha scritto niente, forse rendendosi conto che non aveva voglia di rievocare affettuosamente la signora coi capelli cotonati che le chiese se si fosse mai fatta delle pere davanti alla figlia. O forse perché troppo impegnata col controllo dei danni relativo a un’altra intervista: un paio di settimane fa è stata ospite del podcast di Marc Maron, ed è riuscita a inimicarsi chiunque da Brad Pitt in giù. Marc Maron è un comico: forse gli ultimi rimasti a poter fare dire alle celebrità cose di cui poi le celebrità si pentiranno. La scusa che «ehi, è un comico, mica puoi prendertela» è perfetta, annulla ogni permalosità, se t’invito al programma d’un comico è come se t’invitassi a un programma che si chiama Belve: devi stare al gioco. (Il giochino non funziona sempre: l’intervista di Letterman a Zelensky è noiosissima).

La misura delle capacità dell’intervistatore è il malumore dell’intervistato, dunque. Ma la misura dell’intelligenza dell’intervistato è capire che farsi mettere di malumore gli conviene. Certo, chi te lo fa fare: puoi andare da Netflix a farti fare il documentario compiacente su misura. Ma tra vent’anni – o anche tra venti giorni – nessuno avrà voglia di rivedere Harry e Meghan che ci spiegano che loro sono i buoni, e tutti continueremo a guardare Barbara Walters che chiede a Mark David Chapman perché abbia ucciso John Lennon, e lui che risponde che sperava che così sarebbe diventato famoso quanto lui. Un po’ come prima di diventare un assassino, prima di scegliere a chi dare un’intervista bisogna quindi chiedersi: voglio fare bella figura o essere memorabile?

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