Imperfetta e feliceLa democrazia è una promessa, non rendiamola una delusione

Negli ultimi anni i Paesi pluralisti hanno disatteso le aspettative, alimentando rabbia e populismo. Ma ora le minacce di Putin offrono al mondo libero la possibilità di riscattarsi e di restituire attrattività ai suoi veri valori

AP/Lapresse

Questo è un articolo del numero di Linkiesta Magazine + New York Times World Review 2022 ordinabile qui.
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Il cielo blu sopra la decima edizione dell’Athens Democracy Forum non riusciva a spazzare via l’angoscia. Per la prima volta si stava discutendo della possibilità di un guerra nucleare. I sabotaggi del gasdotto Nord Stream annunciavano l’arrivo di un inverno aspro. L’inflazione in Germania – un Paese che non ha mai dimenticato l’orrore che seguì il rialzo dei prezzi negli anni Venti del Novecento – si era impennata, superando il 10 per cento. E, proprio nel giorno in cui ha avuto termine il ciclo di incontri ad Atene, venerdì 30 settembre, il presidente della Russia, Vladimir V. Putin, ha annesso più di 100.000 chilometri quadrati dell’Ucraina orientale e meridionale rendendoli parte di una “madrepatria” russa che – così ha detto – difenderà con ogni mezzo a sua disposizione.

Il modo in cui affronteranno le minacce di Putin e il suo disprezzo del diritto internazionale sarà un banco di prova per le democrazie di tutto il mondo. Questo è risultato chiaro nel corso di affilate conversazioni da cui è emerso che – come dice il presidente francese Emmanuel Macron – «se si parla da un punto di vista demografico» la maggioranza del mondo non sta dalla parte dell’Occidente. L’India e la Cina sono state riluttanti nel prender partito per quanto riguarda questa guerra. E molti Paesi africani, che covano ancora rancore per il colonialismo e che sono diffidenti verso le promesse occidentali, inclinano verso la Russia, che è un importante fornitore di armi per tutto quel continente.

Quando Jeffrey Sachs, che dirige il Center for Sustainable Development della Columbia University, ha affermato la visione secondo cui gli Stati Uniti sono «una società razzista dominata dai bianchi» e non sono migliori della Russia con la sua «cultura dell’autorità» o della Cina «con i suoi professionisti che sono i più aggiornati al mondo», ha ricevuto un applauso per aver sostenuto questa equivalenza morale. Le grandi potenze mondiali dovrebbero parlarsi, ha detto Sachs, invece di cercare di provare la superiorità di un modello sugli altri.

Secondo il suo punto di vista, una parte rilevante di responsabilità nello scoppio della guerra è da attribuire all’espansione della Nato verso i confini della Russia. E ha sostenuto che, qualora la guerra dovesse svilupparsi in un conflitto nucleare, bisognerebbe biasimare soprattutto il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, per non aver voluto negoziare e per aver perseguito un’avventata strategia del “tutto o niente”.

Il giornalista polacco Jarosław Kuisz è tra coloro che si sono imbestialiti per queste parole. Facendo riferimento al collasso dell’impero sovietico di trent’anni fa e al ruolo svolto all’epoca da Sachs (che lavorò per accompagnare la Polonia dall’economia pianificata a quella di mercato), Kuisz ha detto: «Sono affascinato perché allora promettesti libertà a queste società. Promettesti che esse sarebbero uscite da trecento anni di soggiogamento e che si sarebbero sottratte a questa orribile sfera di influenza per avanzare verso l’autodeterminazione e il rispetto dei diritti umani». E adesso? Momenti tesi come questo hanno sempre caratterizzato l’Athens Democracy Forum convocato dalla Democracy and Culture Foundation in collaborazione con il New York Times. La capacità di gestire un civile disaccordo è il segno distintivo di ogni società sana.

Kuisz ha raccontato di aver incontrato un bambino ucraino che ha perso entrambe le gambe e una mano e una donna che veniva dalla devastata Mariupol’ e che era disperata perché non aveva notizie del figlio disperso. Se non fosse stato per l’ossessione di Putin sulla non-esistenza della nazione ucraina, quel bambino avrebbe ancora i suoi arti e quella madre avrebbe ancora suo figlio. E decine di migliaia di persone, ucraine e russe, molte delle quali giovani, sarebbero ancora in vita. Di fronte a quella che una volta John le Carré definì come «la classica, sempiterna, sfacciata, enorme menzogna panrussa» è opportuno ricordare un semplice fatto: è stato Putin, e non qualcun altro, a iniziare questa guerra. Non dite ai polacchi che dovrebbero confidare nella gentilezza degli stranieri. E non ditelo neanche agli estoni, ai lettoni, ai lituani. Tutto loro hanno conosciuto il totalitarismo sovietico. È non sono sorpresi per il revanscismo imperialista che riaffiora ora nella Russia di Putin. È probabile che la loro intransigenza nel fronteggiare Mosca possa creare tensioni tra i ventisette Paesi che formano l’Unione europea. Paesi come la Francia, la Germania o l’Italia saranno più inclini a cercare un compromesso negoziato, anche se un simile compromesso al momento sembra inconcepibile.

Perché c’è una cosa sulla quale al Forum tutti erano d’accordo: la guerra in Ucraina sarà lunga. E più sarà lunga, più ci sarà il rischio di un’escalation. Basta che succeda una qualunque cosa, anche un solo incidente. E l’ipotesi che sull’umanità possa abbattersi una distruzione di questa portata non appariva così verosimile fin dai tempi della crisi dei missili di Cuba del 1962. Christopher Clark, uno storico australiano che insegna alla Cambridge University, ha intitolato I sonnambuli un suo libro sull’accumularsi delle decisioni, grandi e piccole, che nel luglio 1914 hanno condotto alla Prima guerra mondiale. I leader di oggi – che operano in un’altra epoca di poteri nuovi che avanzano, di trasformazioni economiche e di forze imprevedibili – sono anch’essi dei sonnambuli che, senza accorgersene, stanno accompagnando il mondo verso una deflagrazione? Proprio come accade nella descrizione che Ernest Hemingway dà della bancarotta, è nella natura delle tragedie abbattersi sul mondo «prima poco a poco e poi tutto il resto all’improvviso» La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel suo discorso al Forum ha espresso una nota di ottimismo. «Sono profondamente convinta che la democrazia prevarrà», ha detto. E ha aggiunto: «La democrazia potrà non essere perfetta, ma è perfezionabile».

I sistemi democratici, ha sottolineato, sono molto più flessibili e hanno molta più capacità di reinventarsi rispetto ai regimi autocratici: «La democrazia è una promessa». Ma la democrazia, negli ultimi anni, è stata anche una delusione. Per molti cittadini la promessa della democrazia non è stata mantenuta. La rabbia ha radicalizzato le società occidentali. Un senso di esclusione ha condotto al proliferare di movimenti estremisti e di decisioni prese all’impazzata, come la Brexit (che alla fine non è la panacea di tutti i mali, come l’Inghilterra sta ora capendo).

La scrittrice turca Ece Temelkuran ha fatto un discorso vigoroso sulla crescente disuguaglianza prodotta dal capitalismo globalizzato, che ha annientato la promessa democratica per la quale tutti avrebbero avuto la loro parte secondo equità. Bombardati dai social media, privati di un qualsiasi concetto condiviso di che cosa sia la verità, divorati da paure spesso irrazionali, polarizzati in tribù rivali, isterizzati dalla pandemia, isolati in conseguenza del lavoro da remoto, gli americani stanno facendo fatica a persuadere il mondo che la loro società democratica sia la risposta giusta. E, almeno per certi aspetti, anche gli europei non stanno messi tanto meglio.

Mo Ibrahim, un uomo d’affari anglo-sudanese che ha investito una parte del suo patrimonio nel miglioramento delle pratiche di governo in Africa, si è chiesto per quale ragione mai quel continente dovrebbe prendere l’Occidente come modello. Ibrahim ha fatto riferimento a quanto è politicizzata la Corte suprema degli Stati Uniti, all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio del 2021, all’incetta che gli europei hanno fatto dei vaccini che erano stati promessi all’Africa, alle crescenti disuguaglianze, al ridisegno dei collegi e alle modifiche delle regole elettorali per ridurre il diritto di voto degli americani e al diffuso scontento e al senso di esclusione che, dalla Svezia all’Italia, hanno condotto a una crescita dell’estrema destra. E allora perché mai l’Africa dovrebbe prendere come modello l’Occidente? Forse perché la Russia repressiva di Putin non è un modello alternativo attraente, né lo è la Cina di Xi Jinping, che è uno “Stato di sorveglianza”. Eppure, un mondo dominato dalla Cina e dalla Russia è per molti un orizzonte seducente, anche solo perché la Cina e la Russia non sono l’Occidente, i cui peccati – e tra questi il colonialismo, il razzismo e la guerra in Iraq – non sono stati dimenticati.

Ad Atene è risultato chiaro come abbia preso forma un mondo riconfigurato di grandi rivalità di potere, un mondo nel quale l’influenza degli Stati Uniti non è più così determinante, neppure in un momento in cui si combatte una guerra in Europa. La crisi è anche un’opportunità. Le democrazie possono essere scosse, ma è palpabile la loro volontà di trovare soluzioni e nuove idee. L’Unione europea è stata galvanizzata prima dal Covid-19 e poi da una guerra sul proprio uscio di casa e si è mossa verso un’Europa più federale, con una politica comune più integrata per ciò che concerne la fiscalità, la difesa, l’energia e la politica estera.

I progressi saranno lenti, ma la direzione sembra impostata. Tra gli studenti presenti al Forum erano evidenti un desiderio appassionato di ripensare la democrazia e un forte impegno per salvare il pianeta. Ed essi hanno ben chiaro che lo Stato-nazione non può essere la dimensione con cui affrontare i problemi più rilevanti della nostra epoca, il primo dei quali è il cambiamento climatico, che non tiene conto dei confini. Ad Atene Michel Castrezzati, Elena Vocale e Larissa Möckel – tre studenti che fanno parte dell’International Youth Think Tank – hanno illustrato un’iniziativa che ha l’obiettivo di ripensare l’economia in modo che il grado di successo di una società sia definito non in base alla crescita ma in base alla diffusione del benessere.

Carsten Berg, uno studioso di politica che fa parte del Berggruen Institute, ha portato l’Irlanda come esempio del modo in cui assemblee popolari, formate da cittadini selezionati a caso, possano restituire un sentimento di partecipazione a quelle democrazie le cui istituzioni sembrano lontane dalla persone. Se le giurie funzionano, perché non dovrebbero funzionare delle assemblee di questo tipo? C’è una teoria secondo la quale le autocrazie sono avvantaggiate nel rimanere al potere in tempi di crisi perché non sono soggette ai venti del cambiamento politico. Ma se le società democratiche sono lente ad arrabbiarsi sono anche capaci di grande risolutezza. La storica e sociologa polacca Karolina Wigura ha sostenuto che ci sia stato un eccesso di il pessimismo sul futuro della democrazia, sia nel suo Paese sia altrove. E ha detto che la situazione non è «o bianca o nera, ma è piuttosto come una zebra».

Le sfumature non sono di moda in quest’epoca di grandi proclami, di “tutto o niente”, di presunzione di colpevolezza e di rifiuto dei compromessi. Ma la gran parte della vita avviene nelle zone grigie. Le democrazie sono goffe, ma sono flessibili. Non sono monocrome. Forse la Polonia, anche nelle sue svolte illiberali, sta in realtà percorrendo, come l’Italia e la Svezia, la difficile strada verso una società in cui le varie fazioni abbiano meno disprezzo reciproco.

Isaiah Berlin scrisse nel suo Il legno storto dell’umanità che «nelle cose umane non è possibile, né in pratica né in teoria, una soluzione perfetta» e che «ogni tentativo di produrne una è probabile che conduca a sofferenza, delusione e fallimento». La democrazia è imperfetta e in quella imperfezione risiedono la sua particolare umanità, la sua elasticità, la sua spaventosa fragilità e cioè quelle qualità che ogni ricerca di soluzioni utopiche finisce per distruggere lungo il suo percorso verso il terrore.

La convinzione secondo cui le democrazie di tutto il mondo, per quanti difetti possano avere, incarnino i valori di libertà, apertura, Stato di diritto, libertà di espressione e diritti umani, è stata evidente come non mai nelle parole di Oleksandr Chekmeniov, un fotografo ucraino che nelle sue immagini ha catturato l’eroismo quotidiano delle persone – un panettiere, un aiuto cuoco, un macchinista ferroviario – il cui Paese è stato attaccato semplicemente perché voleva costruire il proprio futuro democratico. Chekmeniov crede che la lotta dell’Ucraina sia essenziale per garantire che il mondo non precipiti nuovamente nella tirannia e nell’orrore: «Tutto questo terminerà con la nostra vittoria, che sarà la vittoria di tutto il mondo civilizzato, della luce sull’oscurità, del bene sul male».

© 2022 THE NEW YORK TIMES COMPANY AND ROGER COHEN

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