Pannelli orbitantiL’energia solare spaziale non è più un’utopia

Lo sfruttamento dei raggi del sole direttamente nello spazio risolverebbe molti problemi che affliggono noi “terrestri”. Nonostante le criticità evidenti e le tempistiche ancora (molto) lunghe, il lancio dello Space solar power demonstrator (Sspd) sta diffondendo un cauto ottimismo

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Aspettando il sole. Il 3 gennaio gli occhi degli operatori del settore energetico erano tutti puntati sul decollo dello Space solar power demonstrator (Sspd). La missione di questa piattaforma è quella di avvicinare l’uomo a sfruttare l’energia solare direttamente nello spazio. Un obiettivo da raggiungere tramite impianti fotovoltaici orbitanti capaci di assorbire l’energia del Sole e trasferirla direttamente sulla Terra. I vantaggi di una simile fonte di energia sarebbero enormi. In un colpo risolverebbe i tre principali problemi di quelle in uso oggi: la costanza, la sicurezza e la sostenibilità. 

Per arrivarci, però, il percorso non è semplice. Realizzato dal Progetto di energia solare spaziale dell’università californiana Caltech, Sspd è ospitato nella missione Transporter-6 lanciata da SpaceX, l’azienda aerospaziale statunitense fondata dal miliardario e attuale proprietario di Twitter Elon Musk. A bordo di Sspd ci sono tre componenti che serviranno da test per capire come costruire dei reali pannelli fotovoltaici orbitanti.

L’idea di prendere l’energia solare direttamente dallo spazio, va specificato, non è nuova. Già negli anni Settanta gli astrofisici avevano iniziato a lavorare a questo obiettivo. Il primo studioso a interessarsi della materia era stato il ceco-americano Peter Glaser, già project manager dei primi esperimenti scientifici eseguiti sulla Luna. Nel corso degli anni anche i governi hanno iniziato a interessarsi a questa visione. Russia, Cina, India e Unione europea sono da anni al lavoro e nel 2008 il Giappone è arrivato inserire nella sua Legge base sullo spazio l’obiettivo di catturare l’energia solare in orbita. Sono passati quindici anni da allora, ma a Tokyo sono ottimisti. 

L’Agenzia spaziale giapponese ha annunciato che entro il 2025 produrrà dei satelliti in grado di ricevere energia nello spazio e trasmetterla sulla Terra. Anche il Regno Unito ha fissato lo stesso target per il 2040. Secondo il piano progettato dalle autorità britanniche, «l’energia solare spaziale è una tecnologia rinnovabile che fornisce energia continua e potrebbe essere disponibile su larga scala. Va quindi esplorata ulteriormente perché potrebbe contribuire a rendere la produzione di energia a impatto zero». Londra si è anche detta sicura che raggiungere questo target è tecnicamente fattibile. 

Anche Dale Skran, capo dell’organizzazione no-profit National Space Society, ha detto di ritenere che «non sono necessarie nuove conoscenze nella fisica» per rendere realtà il sogno dell’energia solare dallo spazio. Secondo Skran, ciò che serve è iniziare a investire seriamente per creare gli strumenti adatti a questa sfida. Il tema resta comunque complesso. 

Ne sanno qualcosa in Cina, dove il progetto promosso dall’Università Xidian aveva suscitato grandi entusiasmi. Con tre anni di anticipo sul programma, gli scienziati erano riusciti a realizzare il primo sistema completo e funzionante per la cattura dell’energia solare, la trasformazione in microonde e l’invio su lunghe distanze. Il problema è che la struttura non è ancora stata inviata nello spazio e le autorità di Pechino hanno fatto sapere che ci vorrà ancora molto tempo prima di vederla partire. 

La costruzione di grandi strutture in orbita non è infatti così semplice. Non solo è necessario lanciare nello spazio quantità significative di materiali: questi materiali dovranno essere assemblati, mantenuti ed eventualmente sostituiti nel tempo. Infatti, a causa del difficile ambiente spaziale, la durata degli attuali pannelli solari nello spazio è molto più breve rispetto alla superficie terrestre. Inoltre, l’invio di energia alla superficie terrestre richiede una trasmissione tramite onde elettromagnetiche ad alta efficienza di trasferimento. Per rimanere al di sotto dei limiti di sicurezza, questo richiederà antenne riceventi con un diametro molto grande. 

Tutte queste problematiche rendono il raggiungimento di questo obiettivo molto dispendioso e incerto. Nonostante questo, quasi tutti i governi hanno deciso di investirci. E le stime spiegano perché: la gamma di potenza di questa fonte di energia va da poche decine di megawatt a diverse centinaia di gigawatt. Per avere un’idea, una centrale nucleare standard fornisce circa un gigawatt e il fabbisogno energetico dell’Europa nel 2020 era stimato in circa cinquecento gigawatt. 

Se riuscissimo ad avvicinarci all’efficienza teorica di trasmissione tramite onde elettromagnetiche (cinquanta-sessanta per cento), potremmo produrre circa quattrocento watt di elettricità per metro quadrato sui ricevitori terrestri, ossia circa due o tre volte la quantità che potremmo ricevere dalla stessa area di pannelli fotovoltaici terrestri. Inoltre, la produzione sarebbe continua: giorno e notte. Occhi puntati quindi alla missione dell’Sspd. «Alcuni risultati dovrebbero arrivare nel giro di poco tempo», hanno fatto sapere i ricercatori di Caltech. Sperando che i satelliti non siano di Icaro. 

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