Primo Levi ha dichiarato più volte che Auschwitz è stata la sua università. Si sa che questa analogia non è sua ma di Lidia Beccaria Rolfi, anche se per lei non si trattò di Auschwitz ma di Ravensbrück, il principale lager femminile della Germania nazista, circa 90 chilometri a nord di Berlino.
Anche per Levi Auschwitz si trasformò in un luogo di apprendimento. Anzi, nel luogo di apprendimento che prima e più di ogni altro lo ha costretto a scrivere. Non una scuola qualunque, dunque, ma una universitas, deputata alla conoscenza della condizione umana nel senso più generale del termine. «Io credo di poter dire altrettanto» dichiara nell’«Appendice» a Se questo è un uomo, richiamandosi a Lidia Rolfi, «e cioè che vivendo e poi scrivendo e meditando quegli avvenimenti, ho imparato molte cose sugli uomini e sul mondo».
Pochi però appresero quello che era necessario apprendere. L’Häftling, il prigioniero 174517, vi riuscì in tempi brevissimi, grazie anche al fatto che per lui, diversamente da Lidia Rolfi e dalla stragrande maggioranza dei deportati, Auschwitz fu la sua «seconda università»: perché Levi entrò nell’altro mondo non come scrittore o come intellettuale, ma come chimico. Se non avesse avuto quel tipo di mentalità tecnico-scientifica, la forza della sua scrittura e la sua maniera di vedere e di capire non sarebbero state le stesse.
Non sarebbe stato lo stesso il modo in cui riesce a farci vedere quanto accadde quella notte di gennaio del 1945, quando i tedeschi, pressati dall’avvicinarsi delle truppe russe, abbandonarono il Campo senza uccidere i prigionieri rimasti in infermeria. Oppure quando ci fa immaginare quel giorno di primavera del 1944, portandoci con lui nel Polimerisations-Büro, nel Kommando 98, dove si tenne l’esame più folle del mondo. Oppure, ancora, quando ci fa udire il grido di morte dell’«ultimo» – «un duro», un solitario che «doveva essere di un altro metallo del nostro» –, la sua voce e le sue parole, insieme al rumore secco della botola che si apre e dove «il corpo ha guizzato atroce [e] la banda ha ripreso a suonare».
Vale ripeterlo: la chimica – come approccio metodico, come forma mentis – gli servì a scrivere, ma anche a conoscere il complicato intreccio di relazioni umane di un mondo apparentemente assurdo, a capire che quella città-prigione circondata da due altissimi reticolati di filo spinato non era altro che una «gran macchina» costruita dagli uomini per distruggere altri uomini.
A Levi sembra di essere stato cacciato dentro un meccanismo indecifrabile, costruito per divertimento e sadismo, dove anche un medico, un ungherese che ha studiato in Italia e che si presenta come un criminale‐dentista, dice cose folli.
Ma con il passare dei giorni la capacità di Levi di cogliere i minimi dettagli, di individuare gli apparentemente incomprensibili dispositivi di funzionamento della «macchina» si affinò sempre di più. «Il Lager è stato per molti di noi e per me in specie, un osservatorio; cioè un altro modo parallelo a quello che dicevo prima del mestiere chimico, di immagazzinare esperienze positive».
Ciò dipese in larga misura proprio dal tipo di attenzione e di sensibilità allo studio dei fenomeni naturali, e in particolare a quelli legati alla trasmutazione della materia che aveva acquisito negli anni universitari. A mano a mano che oltrepassa la soglia di quel congegno infernale, l’impressione che ne ricava è di essere finito in una macchina‐mondo fatta a rovescio, dove regna la confusione delle lingue e la prima regola è non pensare e non capire. «Qui siamo su un altro pianeta. Non dimenticartelo» sentenziò Rudolf Höss, rivolgendosi al cognato Fritz Hensel.
Levi descrive con grande accuratezza questo stato di vita umano-animalesca. Com’è evidente all’inizio del capitolo «Le nostre notti», dove i verbi «scavare» e «secernere», e i sostantivi «nicchia» e «guscio», ci fanno percepire quanto questo legame sia in gran parte originario e non acquisito.
È il Levi curioso osservatore della natura animale e umana a prendere la parola. E non importa sapere se nel 1947 avesse letto di etologia, se già conoscesse Konrad Lorenz o fosse al corrente di altri studi sul comportamento animale. Certamente aveva letto Darwin, ed era più che sufficiente: è lui stesso a dirlo, per di più a quindici-sedici anni, a un’età precocissima.
Levi si sentiva chimico dentro, e quanto questa sua condizione era così pervasiva e compenetrata con qualunque altro aspetto del suo animo. Qualsiasi linea di confine interiore è saltata. Il suo modo di lavorare e di pensare la materia, di percepirla e osservarla, di competere e lottare con essa, si riflette nel suo modo di vedere e di stare al mondo.
Leggendo brani come questo, sembra quasi che la sua abitudine all’osservazione dettata dal suo essere chimico influenzi ogni altro suo aspetto dell’agire e del pensare. A tal punto che tra cose e persone non c’è soluzione di continuità. Vita e materia non sono campi separati: il termine «cose» si riferisce anche alla materia umana, «comprende anche le persone». «Per lui non esistono confini di genere tra materia inanimata, vegetali e animali».
Prima di giungere ad Auschwitz, la mente e l’occhio di Levi sono dunque già allenati al distanziamento necessario per «cacciare» la materia in qualunque forma essa si presenti, sia come reazione chimica nel regno minerale sia come trasformazione della vita nel regno vegetale e animale. L’attestazione più evidente di questo legame è «Carbonio», l’ultimo racconto del Sistema periodico, ma che venne concepito per primo.
La storia di un atomo di carbonio prendeva corpo nel carcere di Aosta, prima del trasferimento di Levi a Fòssoli e poi ad Auschwitz. Qui il nesso strettissimo tra materia e vita è già presente: «La mia idea era quella di insegnare alla gente questo miracolo del carbonio quale elemento vitale, di spiegarle il perché di questa storia sbalorditiva, di come il carbonio può diventare un elemento vivo».
Fin da subito, quindi, fare il chimico e riflettere sul mestiere del chimico sono due aspetti inseparabili da un discorso più generale che coinvolge anche la vita umana nella sua costitutiva ambiguità e mutevolezza. Per Levi, per il chimico sui generis Levi, non c’è nessuno iato tra lo studio della trasmutazione della materia e lo studio delle infinite variazioni che si manifestano nell’animale-uomo, nella complessa macchina umana. L’attitudine mentale è la medesima. E l’osservazione del comportamento umano all’interno del Lager lo dimostrava pienamente.
Da “In un altro mondo” di Massimo Bucciantini, Il Saggiatore, 416 pagine, 28 euro