Recuperare terreno L’Europa non può lasciare il Sahel al bivio tra la branca locale dell’Isis e la Wagner

Senza forze di pronto intervento, gli ex colonizzatori hanno perso influenza negli Stati africani, che contro i terroristi si affidano ai mercenari russi. L’Ue può sbloccare più investimenti economici o attivare l’European Peace Facility per finanziare gli eserciti locali, ma non sono strade prive di rischi

Manifestanti filorussi in Burkina Faso
AP Photo/Sophie Garcia

Se dovessimo parlare di un Paese in cui la situazione è simile a una polveriera pronta a esplodere, dovremmo necessariamente nominare il Mali. E non da ora, ma da anni.

Nella regione del Sahel, quella immediatamente a Sud del Sahara Occidentale, c’è un groviglio quasi inestricabile di connivenze, situazioni pericolose, amicizie rischiose, che hanno tutte un unico risultato: escludono, al momento, l’Unione europea dal tavolo.

Chiariamo un attimo. Il Mali si trova in un periodo decennale di totale instabilità politica, acuita dalla crescente presenza sul suo territorio di Iswap, la branca dell’Isis che opera in quella porzione d’Africa.

A nulla, nel corso degli anni, sono serviti gli interventi delle task forces europee (Barkhane è stata sostanzialmente un fallimento, Takuba più o meno si attesta su quei livelli), se non ad acuire il sentimento antifrancese della popolazione, che l’anno scorso ha spinto per la chiusura dell’ambasciata a Bamako.

Una situazione locale, che ha portato a due risultati tragici per l’Ue: la cacciata di tutti i militari francesi nel vicino Niger e il totale affidamento dei governi (governi perché tra il 2020 e il 2022 ci sono stati tre colpi di stato) al Gruppo mercenario russo Wagner.

Questo è un problema enorme per l’immagine della Francia in primis, e dell’Unione Europea poi. Mai nella Storia era successo che un Paese colonizzatore perdesse del tutto la sua influenza sull’ex colonia, in favore di un soggetto terzo con cui la suddetta colonia non aveva mai avuto rapporti prima. Semplificando al massimo: in Mali si parla francese, la moneta è il franco Cfa, ma le bandiere tricolori che sventolavano per le vie di Bamako nel 2013 ora sono state bruciate e sostituite con foto di Vladimir Putin.

Capovolgendo la prospettiva: il Mali recrimina all’Europa il limite, per loro assurdo, di non avere un esercito effettivamente pronto a intervenire, e fa pesare soprattutto il fatto che la Russia possa inviare militari, seppur mercenari, a risolvere la situazione in tempi brevi. Effettivamente, dove la Wagner è intervenuta, Iswap è sparito, o è stato fortemente ridimensionato, ma questo non è necessariamente un bene. Quantomeno non in senso assoluto.

Il gruppo Wagner non è un ente benefico, non è una onlus: è piuttosto un manipolo di ex soldati o ex detenuti troppo crudeli per far parte dell’esercito russo, che si insedia dove può fare gli interessi di Mosca. In cambio della sua difesa chiede un tributo altissimo in termini di denaro e di influenza politica. E per ora il Mali sta pagando.

Per questo la riunione del Consiglio Affari Esteri dell’Ue ha avuto come tema la situazione nel Sahel. L’Unione può garantire un maggior rispetto dei diritti umani e può intervenire nella regione, sostituendo Wagner. Sostituendo, non affiancando. L’obiettivo principale delle istituzioni europee è infatti frenare il flusso di soldi che da Bamako arriva a Kyjiv via Mosca.

Ogni franco Cfa che il governo maliano versa nelle casse di Wagner, va a finanziare l’invasione russa dell’Ucraina e questo l’Ue non deve e non può permetterlo. Come può fare però? In due modi, uno più costruttivo, l’altro più rischioso.

Può sbloccare dei fondi del Global Gateway, il mastodontico piano di investimenti da trecento miliardi, di cui centocinquanta destinati all’Africa, per sostenere la crescita infrastrutturale dei Paesi a rischio. A patto che questi ultimi completino la transizione democratica e mantengano l’ordine costituzionale. Questa è l’opzione più semplice, ma ha una prospettiva di lunghissimo termine.

La seconda sarebbe sicuramente più rapida ed efficace, ma più pericolosa. Si tratterebbe di far intervenire l’European Peace Facility (Epf), il meccanismo con cui l’Ue finanzia gli eserciti di Stati in stato di particolare crisi. Con l’Epf si potrebbe fare in modo che il Mali riesca ad avere presto le armi (letteralmente) per far fronte a Iswap, ma con un’enorme incognita: cosa fare se quei soldi e quelle armi vengono utilizzati per finanziare un altro colpo di Stato? Che figura farebbe l’Unione europea?

In tal caso la sua reputazione in Africa, già molto traballante, sarebbe irrimediabilmente distrutta. Inoltre, l’European Peace Facility ha ridotto sensibilmente i suoi finanziamenti nel continente, ridestinando gran parte dei fondi all’Ucraina. Bel dilemma.

Intanto, il Consiglio Affari Esteri che si è riunito un paio di giorni fa ha ribadito che una nuova partnership militare inizierà il mese prossimo in Niger, ma è una scelta forse ancora poco incisiva, perché dà una prospettiva fumosa sull’evolversi degli eventi. Inoltre, l’Ue predisporrà una serie di iniziative di addestramento nei Paesi del Golfo di Guinea, con l’obiettivo di evitare che la crisi maliana si allarghi a macchia d’olio.

Per farlo, Bruxelles invierà delle delegazioni di consiglieri militari. Segno che la preoccupazione è davvero molta, ed è giustificata.

In definitiva, quale che sia la strada, bisogna trovare una soluzione rapida, perché c’è il rischio che il Mali, e subito dopo Ciad, Benin, Togo, Burkina Faso, Niger, Ghana e Costa D’Avorio cadano nelle mani di un soggetto davvero pericoloso. Se poi questo sarà Iswap o la Wagner ancora non si sa. Ma, in ogni caso, meglio che non succeda.

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