Prospettiva alternativaPer spiegare il primato dell’uomo sulle altre specie bisogna guardare alle azioni individuali

Lo psicologo Michael Tomasello, codirettore del Max Planck Institut per l’Antropologia Evoluzionistica, racconta la storia dell’evoluzione dell’agentività, dalle forme più semplici a quelle intenzionali e complesse, mediate dalla cultura e vincolate da norme sociali

Unsplash

I primati e altri mammiferi sembrano più “intelligenti” di creature di scala inferiore, degli insetti per esempio. Ma le radici di questa impressione non sono affatto chiare; certamente, non si fonda su differenze nella complessità del comportamento: le formiche che costruiscono formicai, i ragni che tessono ragnatele e le api che comunicano la posizione del nettare alle compagne di alveare sono altrettanto complessi, se non di più, di qualsiasi cosa un primate o un mammifero sanno fare.

Non è una questione di complessità, ma di controllo: il comportamento delle formiche, dei ragni e delle api non sembra sotto il controllo dell’individuo, persino quando questi animali stanno eseguendo qualcosa di molto complesso; il controllo è della loro biologia evoluta. Dal canto loro, i primati e i mammiferi, anche quando stanno facendo qualcosa di relativamente semplice, sembrano prendere decisioni attive e informate, decisioni controllate, perlomeno in qualche misura, dall’individuo. Tali specie operano, oltre che con la loro biologia evoluta, con una psicologia che prevede l’agentività (agency) individuale.

Quest’ultima non implica una libertà totale dalla biologia: è immancabilmente esercitata nel contesto delle capacità evolute di un organismo. Un semplice esempio: è chiaro che uno scoiattolo è in qualche modo programmato per nascondere le noci; ma le peculiarità di un particolare territorio, in un particolare momento, sono uniche, al punto che l’organismo non vi può essere biologicamente preparato nel dettaglio. Perciò il singolo scoiattolo, come agente, deve valutare la situazione corrente e prendere da solo la decisione di nascondere le noci. Per molti organismi, i gradi di libertà nel prendere tali decisioni sono oltremodo limitati, e potrebbero differire in ambiti differenti del comportamento.

Ma tali gradi di libertà spesso esistono, e al loro interno è il singolo agente che decide cosa fare. Gli approcci evolutivi al comportamento, che sia animale oppure umano, hanno sostanzialmente ignorato, per le più varie ragioni, l’agentività individuale. Forse perché essa evoca lo spettro di un omuncolo dietro le quinte, che non spiega nulla. Ma i biologi stessi si trovarono dinanzi a un problema simile un secolo fa con il concetto di élan vital, che si proponeva di spiegare la vita in generale. Come risulta, gli esseri viventi si distinguono dai non viventi non tanto per una sostanza, o un’entità, animante, quanto per un tipo speciale di organizzazione chimica.

Analogamente, nel caso in questione, potremmo dire che gli esseri agentivi si distinguono dagli esseri non agentivi non già per una sostanza o per un’entità agentiva, bensì per un tipo speciale di organizzazione comportamentale. Tale organizzazione è basata su un controllo retroattivo, a feedback, con il quale l’individuo dirige il proprio comportamento verso degli obiettivi – molti o buona parte dei quali sono il frutto di un’evoluzione biologica – controllando o addirittura autoregolando questo processo attraverso decisioni informate e monitorando il proprio comportamento.

La biologia della specie viene così a integrarsi con la psicologia individuale. Come e perché l’agentività si è evoluta, e perché lo ha fatto di più in alcune specie (in alcuni domini comportamentali) che in altre? Un’ipotesi plausibile è che, in certi casi, la nicchia ambientale di una specie sia troppo imprevedibile nello spazio e nel tempo perché degli accoppiamenti rigidamente programmati tra la percezione e il comportamento siano efficaci.

Alla luce di tale imprevedibilità, la Natura – se, per facilità di esposizione, ci è concesso personificare il processo di evoluzione per selezione naturale (Okasha, 2018) – avrebbe bisogno di qualcuno, “sul posto” per così dire, che valuti le condizioni locali al momento e che decida la linea di azione migliore. A evolversi, quindi, è una psicologia sottesa all’agentività, che conferisce all’individuo – in alcune situazioni essenziali – la capacità di decidere da solo cosa fare secondo la sua valutazione migliore. Questo modo di operare rappresenta un’architettura organizzativa antica, caratteristica della maggior parte delle specie animali esistenti, e sosterrei addirittura che persino le formiche, i ragni e le api prendono alcune decisioni individuali, sebbene siano poche e molto vincolate.

L’agentività non riguarda, quindi, le molte e svariate cose che gli organismi fanno – dalla costruzione dei formicai all’occultamento delle noci –, ma piuttosto il come essi le fanno. Gli individui che agiscono come agenti dirigono e controllano le proprie azioni, qualunque esse siano nello specifico. La sfida della scienza è identificare l’organizzazione psicologica a monte che rende possibile tale direzione e tale controllo individuali. Rispondere a questa sfida produce una sorta di negativo fotografico del quadro tradizionale della psicologia evoluzionistica, ossia porta sullo sfondo ciò che solitamente sta in primo piano (le specializzazioni adattative della specie) e in primo piano ciò che solitamente è sullo sfondo (l’agentività degli individui).

Per spiegare, in epilogo, la specificità dell’agentività umana – com’è mio desiderio fare – ci serve un resoconto che ricostruisca i passaggi evolutivi nell’organizzazione comportamentale agentiva, a partire da creature che prendono poche e assai limitate decisioni, sino a creature che assai spesso decidono da sé cosa fare. Forse con sorpresa, risulterà che si tratta di pochi passaggi appena.

Da “Dalle lucertole all’uomo. Storia naturale dell’azione” di Michael Tomasello (Raffaello Cortina Editore), 216 pagine, 19 euro