Di nuovo i gilets jaunes a infiammare le piazze. La Francia è col fiato sospeso per i possibili sviluppi destabilizzanti della sfida che le centrali sindacali unite lanciano al governo con la giornata di mobilitazione generale – prevista per oggi – contro la riforma delle pensioni fortemente voluta da Emmanuel Macron. La misura porta da sessantadue a sessantaquattro anni l’età minima per il pensionamento di vecchiaia (salvo che per gli addetti ai lavori usuranti) con un minimo di quarantatré anni di contributi versati. Il tutto non da subito, ma da oggi al 2030.
Riforma peraltro indispensabile perché il sistema pensionistico francese rischia ormai un clamoroso fallimento nonostante l’innalzamento dai sessant’anni voluti da François Mitterrand nel 1983 ai sessantadue anni imposti, dopo durissimi scioperi, da Nicolas Sarkozy nel 2010.
Il timore è che la protesta sindacale, che già si presenta come radicale ben più di uno sciopero generale, inneschi un movimento spontaneo di massa che può paralizzare un Paese. Un movimento che di fatto è già riuscito due volte a costringere governi di destra e di sinistra a ridimensionare radicalmente le riforme delle pensioni e ha costretto lo stesso Emmanuel Macron nel 2020 a ritirare la propria riforma.
La premier Élisabeth Borne ha già ridotto l’età pensionabile da sessantacinque anni inizialmente previsti a sessantaquattro, nel tentativo, solo parzialmente riuscito, di acquisire i voti dei neo gollisti Les Républicains, indispensabili per una maggioranza parlamentare. Inoltre, per acquisire voti tra i socialisti, ha garantito esenzioni per le categorie più svantaggiate. Ma se i pronostici sulla radicalità del movimento popolare di protesta sono negativi per il governo, non sono migliori quelli sul raggiungimento di una maggioranza parlamentare.
È quindi parere unanime che alla fine il governo deciderà di ricorrere agli strumenti che la Costituzione gollista con la sua logica presidenzialista gli offre per imporre a un parlamento in cui non dispone di una maggioranza l’approvazione della riforma delle pensioni. Non più l’articolo 49.3, che prevede che il governo dia per approvata una legge senza sottoporla al voto parlamentare, con il quale l’opposizione può presentare una mozione di censura, che però per ben dieci volte non è passata negli ultimi mesi per le divisioni tra estrema destra, centro e estrema sinistra (e soprattutto perché la sua approvazione avrebbe portato a elezioni anticipate).
Al suo posto invece, alla ricerca di un minor scandalo, il governo dovrebbe fare ricorso all’articolo 47.1, che impone solo venti giorni all’Assemblea Nazionale per discutere la legge – periodo del tutto insufficiente per seguire tutti i passaggi dalla Commissione all’aula – e quindi solo quindici giorni al Senato, dove il governo ha più voti, per la sua approvazione.
Al di là dei trucchi regolamentari e di fronte alla prevedibile forza dirompente del movimento popolare di protesta, emerge un dato di fatto inquietante per la presidenza di Emmanuel Macron, che non è riuscito a staccare la centrale sindacale centrista Cfdt dalla “rossa” Cgt perché ha sempre disprezzato il ruolo di mediazione dei corpi intermedi.
Dunque il governo si accinge a un esasperato braccio di ferro con larga parte dell’opinione pubblica, arroccato nella propria solitudine costretto a misurare l’inesistenza di rapporti articolati e molteplici con i vari strati sociali e di organizzazioni di compensazione dei conflitti in sintonia con l’esecutivo.
Di fatto, il partito di Emmanuel Macron, La République en Marche, che oggi si chiama Rénaissance, è poco più di un comitato elettorale e non ha una presenza diffusa, stratificata e capillare nel corpo sociale che gli permetta di controbilanciare – con una contro-propaganda riformista – la rabbia degli svantaggiati dalla riforma delle pensioni. Da qui i timori per gli effetti potenzialmente destabilizzanti del movimento di protesta che inizia oggi e che si pone l’obiettivo di paralizzare la Francia.