L’ultimo è stato il 10 gennaio 2023, un militare dell’aeronautica si è tolto la vita all’interno della caserma durante l’orario di servizio. L’annuncio è comunicato dai colleghi del Sindacato aeronautica militare che concludono con queste parole: «L’ennesimo dolore che colpisce tutti noi militari e che non può non scuotere anche l’amministrazione e l’intera società. Il numero dei suicidi militari è allarmante!»
Si tratta del terzo suicidio tra le forze dell’ordine dall’inizio del 2023, come riporta sul gruppo Facebook «Osservatorio suicidi in divisa» Cleto Iafrate, attivo nella sensibilizzazione sul fenomeno suicidario nelle forze dell’ordine dal 2014. Nel 2022 Iafrate ha contato settantadue suicidi, uno ogni cinque giorni. Nel 2020 e nel 2021 erano stati rispettivamente cinquantuno e cinquantasette, nel 2019 ben sessantanove.
I numeri rilevati in Italia si inseriscono in una tendenza generale: «In tutto il mondo è ormai stabilito che tra forze dell’ordine e l’esercito l’incidenza di suicidi è più che doppia rispetto alla media della popolazione», spiega Roberto Tatarelli, professore ordinario di psichiatria alla Sapienza di Roma e autore di numerosi studi sul fenomeno suicidario.
«È molto delicato determinare per quali fattori il suicidio tra le forze dell’ordine sia più alto della media», dice Anna Maria Giannini, psicologa e professoressa ordinaria di psicologia alla Sapienza. Il dato è influenzato dal fatto che si ritrovano tra le forze dell’ordine alcune caratteristiche di maggiore incidenza suicidaria, quali la prevalenza di uomini. «Rilevanti fattori di rischio sono inoltre la natura stressante del loro lavoro e l’esposizione alla violenza che esso comporta», aggiunge Giannini. «Bisogna però ricordare che il personale delle forze dell’ordine è attentamente selezionato sia dal punto di vista fisico che psicologico proprio per far fronte a queste condizioni».
Dietro i numeri e le considerazioni generali, ci sono però le storie particolari degli uomini e delle donne in divisa che si sono tolti la vita. Il gruppo Facebook di Cleto Iafrate è diventato anche un luogo di ritrovo per chi è rimasto. Famigliari e amici delle vittime condividono il ricordo dei loro cari e cercano un po’ di conforto nel confronto con altre persone che hanno vissuto esperienze simili.
Tra loro c’è anche Leila Ben Yahia, la sorella di Lamin, carabiniere di ventitré anni, che la mattina del 16 agosto 2019 si è tolto la vita con la pistola di ordinanza nella caserma di Vobarno, in provincia di Brescia, presso cui era a servizio da qualche mese.
Napoletano, Lamin Ben Yahia corona il suo sogno di diventare carabiniere nel 2018. «Mio fratello era un ragazzo bellissimo, non era né pazzo né depresso», ricorda Laila. «Il giorno prima era stato a Verona con gli amici, aveva prenotato un viaggio in Brasile, doveva acquistare l’auto nuova. Non aveva nessuna intenzione di uccidersi». Allora, si chiede ossessivamente Laila, cos’è successo quella mattina nella caserma di Vobarno che ha potuto provocare un’azione così drammatica?
Nel settembre 2021 la Procura di Brescia è giunta alla conclusione che il suicidio di Ben Yahia non è stato motivato da mobbing sul posto di lavoro, come invece sosteneva la famiglia che ha portato anche la storia a “Chi l’ha visto”. A seguito della trasmissione, i sospetti di Laila Ben Yahia sull’inspiegabile suicidio del fratello si sono rafforzati. Racconta di aver ricevuto alcune segnalazioni anonime da parte di ex-colleghi che rivelavano che quella mattina di agosto per un banalissimo errore a Lamin era stata prospettata dai suoi superiori la spropositata punizione di cinque anni di reclusione.
«Il suicidio è un evento multifattoriale che può avere moltissime motivazioni», spiega Roberto Tatarelli. «In genere per ogni suicidio riuscito ci sono da quattro a otto tentativi, ma avendo un’arma in mano questa statistica salta completamente». È proprio la disponibilità di uno strumento per togliersi la vita secondo gli esperti la causa di un tasso così alto di suicidi tra le forze dell’ordine.
Anche Umberto Paolillo, agente della polizia penitenziaria in servizio presso il carcere di Turi si è tolto la vita la notte tra il 17 e il 18 febbraio 2021 con la sua arma di ordinanza. «Se torno a lavorare la cosa non finisce qui perché hanno intenzione di farmi perdere il lavoro o tramite Cmo [Commissioni mediche ospedaliere] o procura» ha lasciato scritto nell’ultima lettera, da consegnare ai carabinieri, denunciando l’insostenibilità della sua situazione lavorativa.
L’avvocato Laura Lieggi descrive Paolillo come una persona schiva e solitaria, affetto da una patologia alla spina dorsale, che si trovava in quel periodo in aspettativa per prendersi cura della madre: «Veniva bersagliato da sanzioni disciplinari, una dietro l’altra, che però ha sempre impugnato e vinto, fino a quando non ce l’ha più fatta».
Le sanzioni che si ripetono costantemente e vengono costantemente vinte «possono essere l’indizio di un comportamento persecutorio», commenta Lieggi, legale della madre di Paolillo, che ha depositato le carte chiedendo un risarcimento del danno. Tuttavia, spiega, il mobbing è un reato molto difficile da dimostrare in generale in quanto bisogna provare l’intento persecutorio. La difficoltà aumenta quando si tratta di forze dell’ordine. «Confermare intenti illegali da parte di coloro i quali dovrebbero fare della legalità la loro Bibbia è molto difficile, l’amministrazione dovrebbe rispondere contro se stessa».
Umberto Paolillo soffriva anche molto per essere stato mandato dai suoi superiori più di una volta alla Commissione medica ospedaliera per provare la sua infermità mentale, pur essendo stato giudicato ogni volta completamente sano. «Paolillo aveva parlato con alcuni colleghi e anche con lo psicologo del suo disagio, ma la sua situazione non era migliorata», riporta l’avvocato Lieggi. Come nota il professor Tatarelli, «lo stigma legato alla salute mentale in ambienti spesso dominati da machismo e cultura dell’onore è ancora presente.»
Un altro elemento che aumenta lo stress lavorativo in ambito militare è la forte gerarchizzazione. «Fino a poco tempo fa, il militare era solo di fronte alla gerarchia» spiega Remo Giovanelli, segretario generale regionale per la Sardegna del Nuovo sindacato carabinieri. I sindacati militari sono una conquista recente e ancora molto controversa. È solo dell’aprile del 2022 che una legge permette alle forze armate di unirsi in associazioni sindacali, con competenze limitate rispetto ai sindacati ordinari, dopo la sentenza della Corte costituzionale del 2018.
«Siamo a quattro anni dalla sentenza della Corte costituzionale, ma la normativa è ancora in fase embrionale», commenta Giovanelli. «La presenza dei sindacati è un fattore fondamentale per la salute mentale del personale militare perché contribuisce ad evitare il senso di solitudine e a educare sui diritti dei sottoposti nel caso si verifichino situazioni di illegalità». Anche questo, secondo il sindacalista, può dare un piccolo contributo a diminuire il numero di chi commette il gesto estremo.
Il suicidio in divisa che fino a qualche anno fa era un tabù, è sempre più apertamente discusso. Nel 2019 è stato istituto per decreto del Ministero dell’Interno un osservatorio permanente interforze sul fenomeno suicidario tra gli appartenenti alle forze di polizia. La professoressa Giannini, che è stata udita in qualità di esperta, sottolinea gli sforzi istituzionali nella prevenzione dei suicidi e del disagio mentale tra le forze dell’ordine, promuovendo l’assunzione di psicologi e le convenzioni con centri di psicologia e psichiatria esterni, anche se i numeri sono ancora insufficienti. Inoltre, spesso rivolgersi a uno psicologo interno è reso problematico dal fatto che, in caso sia ritenuto necessario, deve essere ritirata l’arma di ordinanza e il militare può essere riformato. «Questa pratica che è una tutela anche per il militare è sfortunatamente vissuta spesso come una punizione», aggiunge Giannini.
Per questo, secondo la psicologa, il provvedimento più utile sarebbe aumentare la presenza costante degli psicologi all’interno delle forze dell’ordine, in modo che lavorino insieme al personale nelle situazioni più stressanti e che rilevino eventuali indicatori di disagio al di là delle singole situazioni di emergenza.
Nel frattempo, la conta delle vittime nel gruppo Facebook fondato da Cleto Iafrate continua ad aumentare, così come aumentano le richieste di verità e giustizia dei parenti, come la madre di Umberto Paolillo, Rosanna, e della sorella di Lamin Ben Yahia, Laila. «Vorrei che chi sa cos’è successo quella mattina nella caserma di Vobarno si passi una mano sulla coscienza e racconti tutto. Con Lamin, metà della mia vita se n’è andata. Resisto solo per la rabbia e la sete di giustizia», conclude Laila Ben Yahia.