Lui è peggio di meLe reazioni pavloviane delle opposizioni sono la migliore assicurazione per la destra

L’altissima astensione dimostra che nel paese non c’è traccia dell’entusiasmo per le prodezze del governo che Meloni vorrebbe accreditare. Ma per approfittarne, a sinistra, c’è bisogno di una rottura

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Da Carlo Calenda, secondo il quale hanno sbagliato gli elettori, a Elly Schlein, convinta che la colpa della sconfitta sia «di chi per anni ha inseguito il centro, senza accorgersi che si stava perdendo la sinistra» (i candidati in Lombardia e Lazio erano rispettivamente Pierfrancesco Majorino, storico esponente della sinistra del Partito democratico nonché sostenitore di Schlein, e Alessio D’Amato, formatosi nel Partito dei comunisti italiani di Armando Cossutta), i commenti alla disfatta elettorale da parte dei dirigenti del centrosinistra non lasciano ben sperare quanto alla possibilità di riprendere in tempi rapidi un qualche contatto con la realtà.

Comunque la si pensi sulle posizioni degli uni e degli altri, quello che più colpisce è la loro assoluta impermeabilità ai fatti, specchio di una chiusura autoreferenziale ai limiti del burnout. Questo, ad esempio, il tweet di Enrico Letta: «I fatti. I nostri due candidati in #Lombardia e #Lazio ottengono più voti delle scorse regionali. Le nostre liste, oltre il 20%, prendono più delle politiche. Il #Pd la sua parte l’ha fatta. M5S e Terzo Polo non hanno voluto coalizzarsi, dimezzano i voti e se la prendono con noi». Insomma, lui è peggio di me. All’indomani di elezioni regionali in cui i candidati del Pd hanno perso di venti punti rispetto agli avversari del centrodestra, un simile miscuglio di esultanza e ripicca, peraltro comune a gran parte delle dichiarazioni pronunciate dal resto del gruppo dirigente, mette una certa angoscia: si aspetteranno anche un premio?

Del resto, all’indomani delle politiche, in direzione si erano divisi tra chi definiva il risultato «non catastrofico» (Letta) e chi lo definiva «non disastroso» (Andrea Orlando). Evidentemente sono contenti così.

Tutti, adesso, a cominciare dai candidati sconfitti, sembrano concordare sul fatto che andare alle elezioni con un segretario dimissionario, senza avere ancora celebrato il congresso, a cinque mesi dalle politiche, non sia stata un’idea geniale. Nessuno però ricorda chi lo ha voluto, chi lo ha deciso, chi addirittura aveva chiesto di tirarla in lungo molto di più, e fino a ieri lamentava l’inaccettabile compressione dei tempi imposta alla «fase costituente» (se non vi ricordate nemmeno cosa sia, non è colpa vostra).

Quanto a Giuseppe Conte, ammesso e non concesso che sia giusto collocarlo nel centrosinistra, l’ex punto di riferimento di tutti i progressisti si dice convinto che il Movimento 5 stelle goda di «ottima salute» e debba solo «accelerare sui territori», e insomma, con la nomina dei nuovi coordinatori provinciali andrà tutto a posto: a riprova che la disconnessione dalla realtà e la fuga nel pensiero magico riguardano tutte le forze dell’attuale opposizione.

Eppure l’altissima astensione – sono andati a votare solo quattro italiani su dieci – dimostra che nel paese non c’è traccia dell’entusiasmo per le prodezze del governo che Giorgia Meloni vorrebbe accreditare. C’è piuttosto una generale disaffezione, che colpisce soprattutto le opposizioni, e che le surreali reazioni summenzionate, ragionevolmente, non faranno che confermare anche nei prossimi sondaggi.

La situazione è insomma molto più aperta di quello che sembra, nonostante tutto. Ma per approfittarne, a sinistra, c’è bisogno di una rottura, di un salto, di una scossa che consenta di archiviare discussioni nominalistiche e anacronistiche, in cui ciascuno recita sempre la stessa parte dello stesso identico copione, davanti a un pubblico sempre meno numeroso e sempre più depresso.

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