Con la scomparsa nei giorni scorsi di Giuseppe Benanti, classe 1945, già a capo della Sifi, l’industria farmaceutica con sede sulle pendici del vulcano, l’Etna perde una figura cruciale per lo sviluppo della viticoltura della zona e per l’affermazione internazionale dei suoi vini. Basti pensare che, prima di Giuseppe Benanti, l’Etna era un territorio vitivinicolo antico ma del tutto ignorato a livello globale. Se i vini dell’Etna, negli ultimi anni, si sono affermati tra gli specialisti internazionali del settore è certamente grazie al terroir unico del vulcano, una combinazione di elementi che hanno esaltato la forte vocazione enologica di quest’area della Sicilia. Ma, tra questi elementi, l’iniziativa di imprenditori visionari come Benanti è stata assolutamente indispensabile.
In primo luogo, l’Etna gode di un microclima unico. La latitudine è africana: Catania è alla stessa latitudine della punta settentrionale della Tunisia. Ma l’altitudine è alpina: la vite sull’Etna, che con i suoi 3.340 metri slm è il vulcano attivo più alto d’Europa, viene coltivata fino a 1.100 metri sopra il livello del mare. In un’area geografica limitata, coesistono così climi mediterranei e montani con escursioni termiche. E se in inverno, specie sul versante nord, le temperature possono scendere anche sotto lo zero, in estate possono superare i 40°C, con un’escursione giorno-notte che raggiunge i 30°C.
Poi c’è il suolo. Nel corso dei millenni, i fianchi dell’Etna sono stati plasmati da crateri, grotte e fenditure, strati di ceneri e lapilli, lunghe colate laviche che hanno arricchito questo suolo di abbondanti quantità di sali minerali, potassio, fosforo e magnesio. Se oggi si ragiona sempre più in termini di contrade e parcelle è perché, anche a pochi metri di distanza, le accentuate differenze di umidità, temperatura, esposizione e suolo, determinano vini altrettanto diversi per carattere e qualità organolettiche. Giuseppe Benanti è stato probabilmente il primo imprenditore a cogliere la rilevanza delle diverse contrade del vulcano.
Allo stesso modo, fin dall’inizio, ha scelto di puntare – quasi esclusivamente – sui vitigni autoctoni, altro elemento di unicità di questo “territorio”. Il Nerello Mascalese, un rosso ricco di tannini che, proprio come Nebbiolo e Sangiovese, si esprime al meglio dopo un lungo affinamento. Il Nerello Cappuccio, uva che aggiunge colore, frutta e morbidezza al Mascalese. Il Carricante, un bianco che, per alcune caratteristiche, alcuni paragonano ai Riesling alsaziani. A dire il vero, negli anni ’90 Giuseppe Benanti, spinto dall’euforia tipica dei pionieri, fu anche protagonista di una sperimentazione di Pinot Nero sull’Etna, in collaborazione con Giacomo Tachis, il celeberrimo enologo piemontese, per più di trent’anni consulente di Antinori.
«La nostra è una storia originale: l’attività di mio padre era soprattutto in campo farmaceutico». Così esordì Antonio Benanti, figlio di Giuseppe, quando andai a trovarlo nella sede della cantina a Viagrande, nel luglio del 2016. «Alla fine dell’Ottocento, il bisnonno Giuseppe possedeva dei vigneti a Viagrande: un classico esempio di piccolo proprietario terriero della zona, come ce ne sono migliaia. Mio nonno è il primo che si laurea in famiglia: trascura la campagna, ma non la vende. Studia oculistica e oftalmologia. Diventa farmacista, uno dei primi a Catania, infatti la sua farmacia aveva matricola 11! È un fenomeno generale: la generazione di mio nonno trascura l’attività di campagna almeno fino agli anni ’70. Prevale l’impegno per l’azienda farmaceutica oftalmica. Mio padre Giuseppe si laurea in farmacia. Da bambino, però, faceva la vendemmia e trascorreva il tempo con il nonno. La fiammella della viticultura era rimasta accesa, sebbene l’attività principale fosse quella farmaceutica, prima in Italia, poi anche all’estero».
La svolta avviene nel 1988. Antonio – che è stato presidente del Consorzio dell’Etna dal 2018 al 2022 – la racconta così: «Mio padre si trovava al Circolo del golf di Castiglione, Il Picciolo, a pranzo con Francesco Micale, un amico medico. Chiedono del vino. Ma il vino dell’Etna non è nella carta. “Possibile che non si possa fare nulla di meglio? Con la storia che abbiamo?”, si chiese mio padre che, nel corso della sua attività lavorativa, aveva viaggiato tanto e bevuto bene. “Se io conoscessi un buon enologo – disse – proverei a fare del vino!” Aveva raggiunto dei successi, aveva disponibilità economiche e voglia di novità. L’amico medico gli rispose: “conosco un enologo catanese che lavora per altri in Sicilia”. Si può dire che l’azienda vitivinicola Benanti nasca lì».
L’enologo catanese citato è Salvo Foti, un personaggio destinato a diventare, a partire da quegli anni, un punto di riferimento per tutto il movimento del vino dell’Etna, nonché custode di una cultura contadina secolare: un vero e proprio guru della viticoltura etnea, soprattutto quella tradizionale ad alberello. Raggiunto da Benanti, Foti risponde così: «Non so esattamente come si fa, ma il potenziale è enorme».
«Il vino l’avevamo fatto sempre nel Palmento – spiega Antonio – seguendo le tecniche tradizionali. Nessuno aveva fatto eccellenza sull’Etna. Salvo Foti faceva consulenze con ben altre cantine e qui trova un signore con disponibilità, carattere, energia e voglia di cominciare. Un signore che non si accontentava: “Non può essere questo l’Etna”. Appunto».
E così, Giuseppe Benanti chiama un gruppo di consulenti: Rocco di Stefano dell’Istituto di Enologia di Asti, Jean Siegrist, professore di Enologia all’Università di Beaune in Borgogna, gli esperti piemontesi Monchiero e Negro direttamente dalle Langhe. In pratica, «Riunisce sull’Etna le eccellenze del vino» racconta Antonio. «Aveva entusiasmo, esperienza, radici. Ma non poteva fare riferimento a nessuno a livello locale: nessuno allora ci puntava. Il gruppo di lavoro fa una selezione di territori sull’Etna. All’epoca sull’Etna si trovavano sia varietà autoctone (Nerello Mascalese, Nerello Cappuccio e Carricante) che alloctone: l’obiettivo di mio padre era quello di scoprire e svelare il potenziale delle varietà autoctone e delle diverse zone vocate. Realizza diverse prove di microvinificazione per cogliere il potenziale di queste uve. Si fanno confronti. Per esempio, il Carricante cresce bene sul versante Est del vulcano fino a Sud Ovest. È una varietà più fragile, ha bisogno di buona illuminazione. Si capisce che bisogna puntare a Nord – Castiglione – per i rossi. E a Milo per i bianchi. I terreni di Viagrande si aggiungono nel 1998. La tenuta di Monte Serra apparteneva a dei parenti di mia madre. Papà si innamorò di questo posto e nel tempo è riuscito a riunire i diversi proprietari e ad acquistarlo». Monte Serra rappresenta uno dei poli dell’azienda. Il polo più antico è a Castiglione: infatti, il nome originario dell’azienda, almeno fino al 1994, è Tenuta di Castiglione. L’altro polo è a Milo, versante Est del vulcano. L’ultimo polo si trova a Contrada Cavaliere, a Santa Maria di Licodia, nella zona sudovest dell’Etna.
Racconta Antonio Benanti: «Il primo imbottigliamento risale al ’90: è l’annata spartiacque. Da quel momento si cerca di lavorare su un prodotto di eccellenza, ma i vini non si commercializzano subito. L’esordio sul palcoscenico del Vinitaly è del ’93: a Verona si presentano il Rovittello, rosso, e il Pietra Marina, bianco». Quest’ultimo diventerà un vino “icona”, esaltato dalla critica enologica americana e internazionale e ambito dai cultori del vino di tutto il mondo. Pietra Marina, così, non è soltanto il biglietto da visita della vitivinicola Benanti, ma di tutta la viticoltura dell’Etna. Alla fine di questo lavoro, Giuseppe Benanti ha in mano un ampio materiale conoscitivo dal quale derivano prodotti di altissima qualità. Una qualità omogenea dei vini conquistata dopo un lavoro di avanguardia. Che dimostra l’importanza del contributo dell’uomo nello sviluppo di un territorio vitivinicolo.
Il terroir infatti è anche – e soprattutto – cultura. Per il caso dell’Etna, dunque, non solo la cultura atavica delle coltivazioni ad alberello, dei muretti a secco realizzati con le pietre di lava, delle terrazze realizzate per favorire l’attività agricola, delle centinaia di palmenti dove un tempo si svolgeva la spremitura delle uve e la fermentazione dei mosti. Ma anche la cultura d’impresa più recente, ispirata da personalità visionarie come quella di Benanti. I suoi anni ’90 sono davvero pionieristici. L’attenzione di oggi per le contrade dell’Etna non esisteva nemmeno lontanamente. Non c’era ancora internet: per dieci anni l’azienda si fa conoscere grazie al passaparola e alle recensioni. Per Benanti, uomo impaziente, amabile, attraente e visionario, il mondo della farmaceutica era noioso. Viceversa, in quello del vino, avrebbe trovato lo spazio più giusto per esprimere il suo magnetismo, manifestazione potente di una personalità brillante e istrionica. Non si trattava di sola forma esteriore. Benanti ha espresso la sostanza umana, culturale e imprenditoriale tipica dei grandi precursori: grazie a questo può essere considerato oggi, da un lato, il padre della viticoltura etnea, dall’altro, il primo imprenditore capace di raccontare l’Etna a livello internazionale. Nel 2007, la cantina Benanti è nominata “Cantina dell’anno” dal Gambero rosso, quando il responsabile era Daniele Cernilli. Oggi l’azienda, guidata dai fratelli Antonio e Salvino, produce 170 mila bottiglie e continua ad essere un brand riconosciuto in tutto il mondo. Possiamo dire certamente che altri imprenditori lungimiranti come Marc De Grazia, Andrea Franchetti e Frank Cornelissen, dopo Giuseppe Benanti, hanno “scoperto” l’Etna, offrendo il loro originale contributo e trasformandola in una star del vino a livello globale. Ma Giuseppe Benanti resterà per sempre colui che l’ha “inventata”.