Boots on the groundIl ritorno della guerra di terra in Europa e l’impreparazione dell’occidente

L’invasione dell’Ucraina costringe Stati Uniti e la Ue a interrogarsi sulla decisione, ormai assimilata da diversi anni, di limitare l’impiego di militari sul campo

AP/Lapresse

«No boots on the ground». Con queste cinque parole, nel 2013, Barack Obama ha detto molte cose. Innanzitutto non voleva pagare il prezzo della morte di militari americani in Siria, ma ha anche concluso un fondamentale processo iniziato nel 1973: la netta separazione tra il cittadino e il guerriero, il combattente.

Peraltro, lo stesso principio di risparmiare le truppe di terra impiegando solo l’aviazione è stato adottato da Obama nella guerra di Libia del 2011 contro Mohammad Gheddafi, e sarà poi impiegato nel 2015 contro lo Stato Islamico in Siria e Iraq. Una scelta che mette al riparo da contraccolpi politici nell’opinione pubblica e elettorale interna, ma che cinicamente comporta la morte di migliaia di civili innocenti. Si pensi che in Iraq e Siria i bombardamenti della coalizione anti Stato Islamico hanno ucciso ventimila civili, per avere un paragone in Ucraina i russi in un anno di guerra hanno ucciso 7.200 civili, secondo l’Onu.

Ma torniamo al punto focale: il processo maturato nelle società civili dell’Occidente di radicale separazione del cittadino dal combattente, dall’esercizio delle armi, il rifiuto di mettere a disposizione dello Stato la propria vita, sempre e comunque, foss’anche per difendere la patria. Una svolta epocale, inedita nella storia dell’umanità, maturata alla fine del secolo dalle due guerre mondiali.

Separazione che la feroce aggressione della Russia all’Ucraina sta mettendo però oggi in discussione, tanto che in ambito Nato si sta prudentemente valutando se non si debba in futuro ricorrere nuovamente al servizio militare obbligatorio. Valutazione non “di destra” – l’ha proposta anche Boris Pistorius, ministro della Difesa tedesco e socialdemocratico – motivata dal pesantissimo contraccolpo che la ferocia di Vladimir Putin e la dinamica dei combattimenti hanno avuto su un Occidente largamente convinto di avere bandito la guerra sul suo territorio.

Invece i combattimenti infuriano sul suolo europeo, la battaglia per Bakhmut assomiglia sempre più a una piccola Verdun e la massacrante guerra di trincea è tornata attuale. Ma soprattutto – questo è il punto – l’eroica resistenza dell’Ucraina si incardina essenzialmente su una disponibilità passata di moda nelle società occidentali: ogni cittadino ucraino è e vuole essere, senza coscrizione, per libera scelta, un militare combattente, pronto e disposto a morire per la patria. Un concetto ormai radicalmente, totalmente estraneo, avulso, nelle menti e nella vita dei cittadini europei.

In Occidente, infatti, il processo di separazione totale tra il cittadino e il militare, il combattente, è iniziato già negli anni Sessanta, con la rivolta dei giovani americani contro la coscrizione obbligatoria – a sorteggio – che li costringeva a andare a combattere e morire in Vietnam. Un movimento di massa, alimentato dalle testimonianze dei reduci, che ha saputo radicarsi nella coscienza di tutta la nazione e diventare maggioritario tanto che nel 1973 il presidente Richard Nixon abolì la leva obbligatoria.

In Europa il servizio di leva ha resistito per alcuni anni dopo la caduta dell’Unione sovietica e quindi la fine della guerra fredda, in Francia è stata abolita nel 1998, in Italia nel 2004 ( la “Legge Martino” in realtà “sospende”, non abolisce la leva obbligatoria). Con la fine della minaccia armata del comunismo reale si è infatti totalmente stemperato in Europa e in Italia il legame tra l’essere cittadino di uno Stato e il dovere di difenderlo con le armi.

Non solo, si è aperta soprattutto una fase caratterizzata dalla illusione della “fine della Storia” nella quale la guerra era diventata impossibile nell’Occidente evoluto, in primis in Europa, e ne sono rimasti solo alcuni focolai periferici in Africa e Asia. Non più incombente sui doveri potenziali di ogni singolo cittadino, la guerra è diventata affare esclusivo di professionisti.

In Italia, addirittura, le stesse Forze Armate hanno mutato missione. Smobilitati i trecentomila e più soldati dislocati alla frontiera orientale pronti a combattere l’aggressione del Patto di Varsavia – e non impegnati in conflitti africani nelle ex colonie, come i francesi – dalla missione in Libano degli anni ottanta in poi, i militari professionisti italiani si sono dedicati essenzialmente a missioni di “peace enforcing”. Non di “peacekeeping” e men che meno di guerra combattuta.

Peraltro, l’assetto dell’esercito italiano è essenzialmente difensivo e i corpi d’assalto (Col Moschin, Tuscania, San Marco, Comsubin, Folgore…) contano non più di 10-20mila uomini, un nulla su un qualsiasi teatro operativo. Le uniche azioni di terra offensive di militari italiani negli ultimi trenta anni sono state in Afghanistan e hanno coinvolto poche decine di uomini.

Questo assetto difensivo delle nostre Forze Armate – a differenza di quelle di Francia, Inghilterra e Olanda – è stato scelto dai vari governi di destra e di sinistra a causa di un doppio, stringente, vincolo ideologico. Ha pesato infatti l’intreccio tra il pacifismo della Chiesa, interpretato con vigore per quasi un trentennio da quel gigante che era Papà Wojtyla, e quello della sinistra che andava al governo sempre condizionata dai voti indispensabili dell’estrema sinistra iper pacifista.

Vi fu una eccezione in questo percorso: la guerra contro la Serbia del 1999. Guerra che l’Italia ha combattuto sotto la guida del premier Massimo D’Alema ma solo unicamente grazie all’ossimoro di «guerra umanitaria» prendendo a pretesto la feroce repressione dei kosovari da parte dei serbi.

Invece il vero obbiettivo strategico di Bill Clinton e della Nato, che l’Italia di fatto subì, messo in luce inequivocabilmente dai bombardamenti su Belgrado, era la caduta e la fine del regime di Slobodan Milošević che garantiva la proiezione della zona di influenza della Russia sino all’Adriatico.

Fu quella la prima guerra «no boots on the ground», combattuta dalla Nato solo con massicci e ripetuti bombardamenti aerei, tentottomila missioni, che fecero più di duemila vittime tra la popolazione civile serba e uccisero più di mille militari serbi. La Nato non contò nessuna vittima nelle operazioni di combattimento. La scelta dell’Alleanza atlantica di non impegnare suoi militari sul terreno, che avrebbe evitato la quasi totalità delle vittime civili serbe, fu motivata ovviamente da ragioni politiche: né Bill Clinton, né gli alleati europei erano disposti a pagare il prezzo di fronte alle opinioni pubbliche interne di militari morti.

Nel 2011 la Nato e l’Italia hanno poi replicato lo stesso modello di «guerra umanitaria» condotta in Libia contro il regime di Muammar Gheddafi esclusivamente con l’arma aerea, di nuovo «no boots on the ground». Guerra con conseguenze disastrose.

Non fu così nella guerra di Stati Uniti e Nato in Afghanistan contro i Talebani e in quella in Iraq contro Saddam Hussein per la semplice ragione che non era sufficiente abbattere quei regimi e per vincerle era indispensabile conquistare materialmente il territorio. Ma i più di quattromilasettecento militari occidentali caduti in Iraq e i più di tremilacinquecento soldati morti in Afghanistan hanno avuto un peso enorme sulle opinioni pubbliche interne degli Stati Uniti e degli alleati che, unito al non conseguimento degli obiettivi di democratizzazione perseguiti, ha portato alla fine non gloriosa dell’impegno bellico occidentale.

Di più, in Afghanistan hanno portato ad una fuga ingloriosa nell’estate 2022 a sigillo della indisponibilità dell’Occidente di far morire i propri militari in guerra.

Durante queste guerre si è peraltro consolidato un nuovo fenomeno che ha allontanato ancora più il cittadino dalle armi, dal combattimento: per non pagare il prezzo politico della morte in combattimento dei propri militari, sia pure volontari e professionisti, per avere mano libera per condurre operazioni militari non ortodosse e infine per risparmiare sui costi, il governo americano ha assoldato e impiegato decine e decine di migliaia di contractors dei quali nel solo Iraq ne sono morti più di tremilaottocento. E il contractor, un civile professionista della guerra al servizio di chi lo paga e che combatte unicamente per il (lauto) stipendio segna proprio la separazione assoluta, definitiva del cittadino dalla guerra, dalla sua disponibilità a combattere e morire per la patria.

Specularmente, la Russia di Vladimir Putin ha innervato la sua politica estera in Asia e Africa utilizzando i contractors della agenzia Wagner, largamente poi impegnati in Ucraina.

Ed è proprio l’Ucraina oggi a obbligare a interrogarsi le società europee e occidentali. La ferocia e la volontà espansiva dimostrata da Vladimir Putin e dall’esercito russo e i suoi crimini di guerra possono riproporsi un domani su altri obiettivi. La guerra di terra combattuta da uomini contro uomini, feroce e sanguinaria è tornata sul suolo d’Europa. Bene lo sanno i Paesi baltici e la Polonia che si preparano a fronteggiare una eventuale invasione russa.

Ma – Dio non volendo – se questa si concretizzasse quale sarebbe l’impegno della società civile italiana? Sarebbe sufficiente l’impiego in ambito Nato dei nostri militari di professione o dovremmo iniziare a pensare che i nostri figli, cittadini comuni vengano chiamati a addestrarsi e poi a combattere rischiando la vita boots on the ground? È questo un dilemma terribile con cui potremo essere confrontati.