Bakhmut sta diventando la Verdun del Donbas. Sulla città, settantamila abitanti nella vita di prima, Vladimir Putin sta scaraventando la sua ultima disperata offensiva prima dell’inverno. Il fronte, qui, non si è mai mosso davvero. In un residuato di un altro secolo, è una guerra di posizione. Le cariche dei russi vengono falciate dalle mitragliatrici ucraine. È un massacro. Nel punto più caldo del conflitto, sulla pelle delle reclute si consuma un gioco politico: Evgeny Prigozhin manovra i mercenari della Wagner per dimostrare al Cremlino – ossessionato da una vittoria, anche una sola, da sbandierare in patria – che può sostituirsi alle malconce truppe regolari.
Il centro è stato fortificato all’inizio dell’invasione. Anche per questo i russi non hanno sfondato. Tutt’intorno le cartine che mappano le avanzate si ridisegnavano, tra frecce e colori, ma lì no. Bakhmut si trova nella regione di Donetsk, a dieci miglia dal confine con Luhansk. Ci passano numerose strade e la ferrovia, collegamenti nevralgici sia verso l’Ucraina libera sia verso gli oblast annessi illegalmente da Mosca. Difenderla, per Kyjiv significa proteggere le linee di approvvigionamento dell’ala orientale del suo esercito.
Espugnarla, per Putin, segnerebbe la possibilità di puntare al cuore industriale della provincia, Slovyansk e Kramatorsk, e soprattutto una vittoria dopo quasi sei mesi. L’ultima risale a giugno inoltrato. È una possibilità solo virtuale, però. L’Institute for the Study of War ha definito questo teatro «irrilevante dal punto di vista delle operazioni» dopo la ritirata da Izyum. Senza avamposti più a Nord, Mosca non avrebbe le forze per avanzare e un’eventuale conquista passerebbe comunque da un bagno di sangue. Oggi si stimano perdite nell’ordine dei cinquanta o del centinaio di caduti al giorno.
Allora perché insistere con spallate spinte da un’ostinazione cieca e furiosa più che dalla strategia? La questione non è solo militare. «Per molti versi, la battaglia è un microcosmo della guerra e della sua politica», ha scritto l’Economist. Quel luogo non è considerato strategico – non quanto altri, almeno – ma la Russia sta concentrando lì tutta la capacità offensiva che le resta. Vi ha dirottato rinforzi. Grazie al reclutamento coatto, la Federazione ha centocinquantamila effettivi in Ucraina, metà di loro sono sulla linea del fronte. Insomma, Putin ha carne fresca. Avrebbe affidato la guida delle operazioni al Gruppo Wagner, secondo l’intelligence britannica.
Non è un dettaglio secondario. Il capo della divisione Prigozhin avrebbe garantito a Putin di poter ottenere con la sua milizia privata i successi che l’esercito ufficiale non ha centrato. L’oligarca ha criticato apertamente lo Stato maggiore. Ha reclutato mercenari nelle prigioni; in Siria, Libia, Mali, Mozambico e nella Repubblica Centrafricana. Il suo futuro potrebbe dipendere dal mantenimento, o meno, di quelle promesse. Bakhmut pare il banco di questa scommessa in cui ai legionari viene data l’occasione di dimostrare la presunta superiorità.
Sono giochi di potere a Mosca, interni alla cleptocrazia. Ma sul campo le cose non stanno andando come vorrebbero al Cremlino. Secondo un reportage del Washington Post, le truppe regolari sono mobilitate durante il giorno, mentre il Gruppo Wagner attacca di notte. I racconti dall’«inferno di Bakhmut» tratteggiano una guerra d’attrito simile al primo conflitto mondiale: trincee nel fango (se ne è avuto riscontro dalle foto aeree), assalti a piedi respinti dalle mitragliatrici, mortai, reticolati, massiccio uso di artiglieria. Crateri, i corpi dei morti ad affollare una «terra di nessuno» fuori tempo massimo.
I soldati «sono solo carne per Putin e Bakhmut è un tritacarne», ha detto un soldato ucraino a Christopher Miller del Financial Times. Per alcuni analisti, è in corso uno degli scontri più intensi da febbraio. Lo ha riconosciuto il presidente Volodymyr Zelensky durante la sua visita in Donbas: «Ogni metro conta. È l’area più critica, protegge non solo l’Est, ma l’interezza del nostro Paese». I russi stanno tentando l’accerchiamento, gli ucraini hanno retto. «Noi gli spariamo e loro ne mandano altri, non finisce mai», ha raccontato un sottotenente al Wall Street Journal. L’ospedale militare è pieno di feriti.
Per Prigozhin, la città sarebbe un mero trofeo, da spendere per ottenere qualcosa in cambio. Più influenza, forse nuovi contratti statali (quelli che ha lo hanno già reso ricco, ha cominciato col catering, per questo è soprannominato «il cuoco di Putin»). Dopo le umiliazioni subite a Kharkiv e Kherson, il dittatore sembra incline ad ascoltarlo. La fissazione per Bakhmut, che costa vite umane, è paradossalmente controproducente sul piano tattico: ha facilitato la tenuta ucraina in altri settori, rileva l’Institute for the Study of War.
Se quel mito non si fosse sfatato già in nove mesi di conflitto, la presunta «strapotenza» dell’esercito russo non uscirebbe bene dalla decisione di appaltare le operazioni, quasi esternalizzandole, alla Wagner. Gli uomini di Prigozhin si sono macchiati di crimini contro l’umanità: è il pedigree in virtù del quale ora vengono schierati come forza d’élite nella fase terroristica di una guerra totale ormai persa dallo “zar” in miniatura. Ma lui sembra sempre più fuori dalla realtà.
Ha candidamente ammesso d’aver colpito in Ucraina quartieri civili e infrastrutture pubbliche, di aver bersagliato la rete elettrica. «Ma chi ha cominciato per primo?», si è giustificato. Le condanne internazionali «non ci impediranno di raggiungere i nostri obiettivi militari». Il video di queste dichiarazioni è surreale. È registrato prima di una premiazione degli «eroi russi», seguirà un brindisi. Putin regge un flûte, ghigna, l’equilibrio non pare saldissimo. In passato, la sua comunicazione era più sorvegliata: raro vederlo brandire un bicchiere di champagne.
Mentre lui brinda, i russi muoiono in una guerra che, a sentire i dissidenti, non hanno mai voluto. Forse non sarà la sua Stalingrado, ma Bakhmut è un altro passo verso il baratro per il macellaio del Cremlino.