Fu nella torrida, esplosiva estate del 2019 che i muri di Hong Kong divennero armi. Milioni di manifestanti sfilavano nelle strade, gridando il proprio dissenso alla nuova legge sull’estradizione che, temevano, avrebbe segnato la fine del loro stile di vita. Armati di post-it e pennarelli, tramutavano i muri in superfici piumate dalle tinte sorbetto, tappezzate di dichiarazioni in caratteri cinesi: «Hong Kong, ti amiamo!», «Noi siamo Hong Kong!», «Hong Kong, non ti arrendere!».
Non erano semplici bacheche di scontento, erano le mura di una comunità. A ogni angolo, le loro voci gridavano l’identità di Hong Kong come distinta e separata dalla Cina. Ben presto tali slogan proliferarono su passaggi pedonali sopraelevati e sotterranei, vetrine di negozi e segnaletica stradale, corrimano e cartelloni, come uno sciame rilasciato nel tessuto urbano per impollinarne e colonizzarne ogni angolo.
Centinaia di fotocopie a4, incollate l’una all’altra lungo il marciapiede davanti alla sede del governo, trasformarono i pavimenti in mosaici; attraversamenti e sottopassi divennero estemporanee gallerie del dissenso, in cui spiccavano proclami anonimi e appassionati. Spesso erano piazzate strategicamente: un tappeto bianco e nero di fotografie del presidente cinese Xi Jinping costringeva i pendolari a calpestarne il volto. Squadre in abiti neri si muovevano fulminee, tappezzando per chilometri le vie pedonali. La loro efficienza da catena di montaggio aveva un che di ipnotico: un gruppo correva in avanscoperta spargendo a terra colla liquida, un altro lasciava cadere poster disposti a scacchiera alternando sfondi neri e bianchi; infine, dalle retrovie, un terzo gruppo correva con dei lunghi ombrelli per far aderire i manifesti al suolo. «Forza, Hong Kong!», «Altri dimenticano, noi no».
In poco tempo i dimostranti in nero passarono al graffitismo, scrivendo i propri slogan direttamente su strade, barriere spartitraffico e fermate del tram. «Fanculo la polizia», «Cinazisti», «Se bruceremo, voi stronzi brucerete con noi». Le superfici pubbliche divennero anonime depositarie dei sentimenti più reconditi, e più pericolosi, della popolazione. Le proteste scaturivano dalla massiccia opposizione alla proposta di emendamento delle leggi sull’estradizione di Hong Kong, che avrebbe permesso di consegnare alla Cina ogni presunto sospetto di attività criminali. Ciò avrebbe messo chiunque, a prescindere dalla nazionalità, a rischio di finire a processo in un sistema legale gestito dal Partito comunista, pervaso da abusi sistematici e privo di presunzione d’innocenza.
La nuova legge sull’estradizione avrebbe minato i più essenziali pilastri dell’amato status quo di Hong Kong, violandone l’autonomia giuridica, l’integrità legislativa e lo status di asilo politico, tre capisaldi ai quali la città attribuiva il proprio successo. I britannici non avevano concesso ai sudditi la piena cittadinanza, il diritto di residenza in Gran Bretagna né il suffragio universale, ma quel che avevano fatto era inculcare loro una coscienza civica, con un rispetto quasi religioso per libertà, democrazia e diritti umani. Gli hongkonghesi non si sarebbero arresi senza combattere. Ero stregata da quel movimento che cresceva davanti ai miei occhi, e in special modo dall’esplosione di scritte cinesi sovversive negli spazi pubblici, che convertivano la metropoli in una galleria di idee populiste a cielo aperto in continua evoluzione. Tali installazioni furono battezzate «muri di John Lennon», in omaggio al muro praghese decorato con slogan della controcultura fin dalla morte del cantante, nei primi anni Ottanta.
Il primo Lennon Wall a Hong Kong fu inaugurato nel 2014 dalle proteste pro-democrazia del Movimento degli ombrelli, i cui manifestanti avevano tappezzato di post-it una scala a chiocciola in cemento nei pressi di un palazzo del governo. All’epoca avevo visitato quel muro tutti i giorni e iniziai a fare lo stesso anche stavolta; ma non ci volle molto perché i post-it si emancipassero dai muri per dar vita a sentieri, cavalcavia, marciapiedi di John Lennon. Ben presto non riuscii più a tenere il passo. In Cina, le radici della parola scritta affondano per più di tremilasettecento anni nel passato. Qualche accademico arriva perfino a teorizzare che l’origine della scrittura cinese preceda quella della lingua parlata. I reperti più antichi sono pittogrammi noti come jiaguwen, o «ossa oracolari», iscrizioni incise con arnesi aguzzi su gusci di testuggine e scapole di bue ai tempi della dinastia Shang, nel XVII secolo a.e.v. I rituali propiziatori in cui erano usati riguardavano ogni sorta d’affare di Stato: quando seminare i campi, quali giorni fossero più propizi per celebrare cerimonie e quali per dichiarare guerra. Le ossa venivano scaldate fino a rompersi, e la risposta al quesito posto era divinata in base alla forma della frattura risultante.
Fin dal principio, quindi, la scrittura cinese fu intrisa d’autorità politica e spirituale; il primo carattere per «carattere scritto», zi 字, si compone degli elementi 子, «figlio», sotto un 宀, «tetto». Insieme, significano letteralmente «nuovo nato in casa». Il significato iniziale di 字 era quindi «partorire», «generare», «dare alla luce», mutatosi col tempo in «allevare», «accudire», «educare», «governare» e «amministrare». Riprendendo un motto del grande, compianto sinologo Simon Leys: in Cina, in principio fu la parola, e quella parola fu parola. Nella tradizione culturale cinese, la calligrafia è sia l’apogeo di tutte le forme d’arte sia uno strumento di potere. Se le piazze europee si popolano di statue di individui celebri, in Cina spazi analoghi pullulano di stele o targhe in pietra recanti testi incisi. Lo stesso vale per l’odierna Cina comunista, in cui l’atipica grafia inclinata a destra del presidente Mao Zedong campeggia tuttora su insegne di palazzi e testate giornalistiche. L’attuale presidente cinese, Xi Jinping, ha perfino adottato una firma «stile Mao», quasi che appropriarsi della sua scrittura possa anche infondergli un po’ del potere che fu di quel maestro calligrafo e poeta.
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Nel difendere i propri ideali, gli hongkonghesi si stavano schierando in prima linea in una lotta globale tra i valori democratici e un regime comunista sempre più totalitario. Lo stesso scontro prese a consumarsi nelle strade e sui muri di tutto il mondo, con il proliferare dei muri di John Lennon all’estero. Le installazioni divennero teatro di violenti scontri in Australia, Stati Uniti e Canada, dove cittadini cinesi, spesso muniti di altoparlanti che diffondevano a tutto volume l’inno nazionale, giunsero ad affrontare i dimostranti pro-Hong Kong. Quel minuscolo puntino su una mappa era riuscito a mettere in crisi la nuova superpotenza globale con la sola forza delle proprie convinzioni. I suoi muri erano divenuti un fiume di orgoglio nazionale per un luogo che non si era mai immaginato come una nazione, ma quel dibattito era stato inaugurato ormai decenni addietro, da un Re prima ostracizzato e poi accolto dai suoi sudditi. Di quel nazionalismo il popolo si faceva ora bandiera, esibendolo con le parole e con le armi, e la posta in gioco non sarebbe potuta essere più alta.
Da “La città indelebile” (Add editore), di Louisa Lim, p. 384, 22€