C’è un filo invisibile che connette la copertura politica data da Giorgia Meloni alle provocazioni di Giovanni Donzelli con l’intemerata contro il presidente francese Emmanuel Macron; una continuità, un medesimo riflesso psicologico, un simmetrico scatto nervoso. La presidente del Consiglio in pochi giorni ha esacerbato il clima politico italiano e quello dei rapporti internazionali dell’Italia, ha inasprito le tensioni col Nazareno e con l’Eliseo. In entrambe le circostanze invece avrebbe dovuto ricucire e sedare, e non inveire e, come dicono i Fratelli, «rosicare». È un filo invisibile – proprio come le “Strisce invisibili” di quel vecchio film americano che indicavano le perenni tracce dei carcerati – che non si cancella mai:
Meloni perde le staffe quando percepisce di essere rimandata nella serie B della politica nazionale e internazionale, dalla condizione di minorità che la storia e gli elettori hanno assegnato al Msi-An-FdI fino al 25 settembre, quando gli italiani hanno deciso che Giorgia Meloni può stare a tavola con i grandi, usando le posate del servizio buono. E lei scatta ogni qualvolta sente che altri vogliono toglierle quelle posate: come nel caso Donzelli, contro chi si era permesso di far notare che il Partito democratico non è affatto contiguo agli anarchici né tantomeno alla mafia; oppure contro il presidente francese che aveva invitato a Parigi solo il Cancelliere tedesco e basta.
Appena vede ostacolata la sua smania di grandeur italica, la presidente del Consiglio reagisce furente ricorrendo a una retorica cui non crede lei per prima, arrivando a sostenere che se Macron l’avesse invitata all’Eliseo non ci sarebbe andata perché la cena parigina anche a tre avrebbe indebolito la compattezza europea. Figuriamoci, per una foto con i due Grandi d’Europa – negli occhi la celebre foto del treno con Mario Draghi e i due leader di Francia e Germania – avrebbe fatto di tutto, e pour cause.
L’impressione è che Meloni si stia un po’ montando la testa, altrimenti non si spiegherebbe una reazione così palesemente stizzita di fronte allo sgarbo di Macron (reazione replicata poi ancora più rozzamente da Matteo Salvini) tanto da convocare ieri una conferenza stampa abbastanza penosa giusto per rispondere ai giornali italiani (senza citarli, ma evidentemente Repubblica e La Stampa) accusati di «provincialismo» per aver evidenziato il chiaro isolamento italiano, ottenendo però l’effetto straniante di una presidente del Consiglio che rivendica «successi enormi» di cui onestamente non v’è traccia.
Come i bambini, Meloni ha sbattuto il piedino invocando la vicinanza con Visegrad probabilmente, come ha notato Francesco Cundari, già pregustando un mega-ribaltone degli equilibri europei grazie a un nuovo asse popolari-destra che potrebbe vincere le elezioni dell’anno prossimo.
Anche questo elemento gioca a favore dell’autoesaltazione mostrata ieri a Bruxelles dalla presidente del Consiglio italiana, il sentore cioè di avere il vento in poppa sia sul piano europeo che su quello nazionale, un sentore che tra l’altro ha portato alla sgrammaticatura istituzionale di ritenere le elezioni regionali di domenica e lunedì un test sul governo, quando è del tutto evidente che le ragioni della probabilissima sconfitta dei candidati delle opposizioni sono praticamente tutte addebitabili alle medesime forze dell’opposizione, ancora una volta in ordine sparso sia in Lombardia che nel Lazio.
Eppure Meloni dovrebbe essere un po’ più attenta a certi segnali. Se Francia e Germania – dico Francia e Germania – ieri chiamavano Draghi e oggi non chiamano Meloni, un problema italiano ci deve pur essere. Non è questione di fotografie, è chiaro che siamo davanti a un problema politico.
L’errore storico che Meloni sta compiendo, e che le si sta ritorcendo contro, sta nel fatto che lei concepisce i rapporti europei come al Congresso di Vienna del 1815, cioè come una trattativa permanente a difesa degli interessi di ciascun Paese, nel quadro dunque del più classico nazionalismo, appunto, ottocentesco e primo-novecentesco, quello che, tra parentesi, portò allo scoppio di due guerre mondiali, incapace di assorbire l’idea di un europeismo nel quale gli interessi dell’Europa sono gli interessi nazionali e gli interessi nazionali sono gli interessi dell’Europa, ma se questo diventa l’approccio ideologico generale è chiaro che poi Parigi e Berlino sono un po’ più forti di Roma ed è puerile lamentarsene.
La fiammeggiante autostima della presidente del Consiglio dunque la porta in rotta di collisione con l’opposizione in Italia e i grandi Paesi in Europa, che è esattamente il contrario di ciò che deve fare un vero statista, che ha il compito di unire, mediare, comporre, portare dalla sua parte gli altri, cosa che sembra non le stia riuscendo dato che i voti della destra sono nel complesso sempre quelli, avanzando lei a scapito dei due cosiddetti alleati. Il vento sarà dunque in poppa ma attenzione che in questa situazione gira in fretta.