I biglietti dei concerti che Madonna terrà a Milano tra dieci mesi sono esauriti. Quelli della piccionaia da 46 euro l’uno, quelli del parterre che ogni fan ha pagato 287 euro e 50 centesimi, e tutti gli ordini di grandezza intermedi.
Sono esauriti anche i pacchetti, che al biglietto uniscono amenità quali la possibilità di farsi una foto sul palco prima che il concerto cominci: i cinque tipi di pacchetto partono da 437 euro e mezzo l’uno e arrivano a 945.
In compenso i social sono pieni di lamentele perché i biglietti del cinema sono troppo cari, i libri sono troppo cari, gli abbonamenti alle piattaforme sono troppo cari. È perché siamo la borghesia più ignorante d’Europa? Probabilmente sì: siamo quelli che faticano anche ad andare a vedere Top Gun. Ma nella questione del pagare per i prodotti culturali (o d’intrattenimento) è in atto uno slittamento non solo italiano: il mal comune (e poco gaudio) lo si vede nelle polemiche americane sulla questione Netflix.
Riassunto delle tappe verso l’abisso economico precedenti. Netflix è una piattaforma su cui si possono vedere centinaia (migliaia) di film e serie per un costo mensile che è quello che prima di questo bengodi avremmo pagato per un biglietto di cinema. È un’idea evidentemente antieconomica: se dai a Scorsese centoquaranta milioni di dollari per fare un film, come diavolo pensi di rientrare dei costi con tariffe che vanno da 5 euro e 49 al mese (la più economica, con interruzioni pubblicitarie) a 17 euro e 99?
Se Prime copre di soldi le celebrità per fare reality e serie, si può pensare che sia il giochino costoso di Jeff Bezos: guadagna dal nostro voler ricevere a domicilio, in meno d’un giorno, un oggetto che compriamo – mica dalla piattaforma che è l’omaggio aziendale se ci abboniamo alle consegne a domicilio. Ma il lavoro di Netflix, invece, è proprio la piattaforma di film e serie, ed è evidentemente un lavoro in perdita.
Oltretutto, come in ogni cosa da che esiste il digitale, la gente si divide le password: pago un abbonamento e ne usufruiamo in quattordici. Se siete abbastanza vecchi, ricorderete gli spot in cui scaricare un film o un disco dai siti pirata veniva equiparato allo scippare qualcuno. Gli scippatori di canzoni e film se ne indignarono per tre ragioni.
La terza, e più locale, è che la borghesia più ignorante d’Europa è anche quella che parcheggia solo un attimo in seconda fila torno subito non dà fastidio a nessuno: figuriamoci se è disposta a sentirsi dire che compie un reato perché scarica un film.
La seconda è che registi e cantanti e scrittori, tutti costoro vengono considerati dei privilegiati dalla gente che conduce vite di tranquilla disperazione in open space con uso di buoni pasto. Fai il lavoro dei sogni, e vuoi pure guadagnarci? Sei un privilegiato, ho diritto d’arrubbarmi la tua opera. Sono iscritta a un gruppo Facebook a tema libri in cui gente con iPhone da ottocento euro si vanta di piratare gli ebook: a nessuno di loro viene mai il dubbio che sia la stessa cosa che rubare le scatolette di tonno nel negozio all’angolo (più ottusi dei lettori forti ce ne son pochi).
La prima ragione per cui lo spot non ebbe funzioni moralizzatrici ma venne solo spernacchiato è l’immaterialità delle opere: rubare un file non fa lo stesso effetto che nascondersi un libro sotto al cappotto in libreria, rubare un oggetto che non è tangibile non viene percepito come furto.
Non viene percepito come furto dai ladri ma da coloro che devono far quadrare i bilanci della produzione di quell’oggetto sì, e quindi ora Netflix ha deciso di arginare la condivisione delle password. Ha annunciato che, se si accorgeranno che l’abbonamento sottoscritto per condivisione familiare viene utilizzato da gente che non si trova nello stesso posto, chiederanno di verificarne la legittimità con un codice che ti inviano sul telefono, come già si fa coi pagamenti della carta di credito.
È una precauzione non ottimale – non siamo meno una famiglia se io voglio guardare Netflix dal telefono mentre sono in metrò e sto tornando a casa, mio marito vuole guardarla con l’amante in un motel fuori dalla circonvallazione, e il puccettone di mamma sua la guarda in cameretta – ma l’immateriale pone limiti anche nel farsi limitare.
Non è una precauzione particolarmente vessatoria: se anche l’account è condiviso tra non familiari, basta che chi ha il telefono collegato all’abbonamento inoltri il messaggio col numero da inserire nei successivi quindici minuti all’usufruttuario che sta in altro codice postale. Tuttavia, la rivolta di gente indignata per questa novità è quasi più vibrante di quella volta dei quindicenni con Spotify.
Qualche tempo fa Spotify annunciò una ripulitura degli account pirata. Twitter si riempì di ragazzini che avevano fin lì usato un codice falso (nota bene: per ascoltare Spotify senza pubblicità, giacché con la pubblicità esso è gratis sempre e comunque) e che ritenevano continuare a usarlo fosse un diritto. Ma quelli erano quindicenni: a parte Enrico Letta smanioso di dar loro il diritto di voto, nessuno pensava sapessero quel che dicevano.
Invece ora la rivolta contro Netflix, che osa pretendere che dei suoi abbonamenti si usufruisca secondo le condizioni contrattuali sottoscritte, rende chiare un paio di questioni.
La prima ha il nitore della bancarotta annunciata: abbiamo stabilito che, per tutto ciò che non sono i concerti, siamo disposti a pagare una cifra simbolica, e per quella cifra simbolica vogliamo tutto. I miei meno di diciotto euro al mese devono permettermi di guardare tutti i film del mondo, e non solo a me: anche a centoventicinque dei miei più intimi amici. Poi, quando ci diranno che purtroppo non si può più produrre questo e quello perché nessuno è disposto a pagare per questo e quello, frigneremo.
(Perché per i concerti invece paghiamo novecento euro? Perché sono instagrammabili. Vuoi mettere fotografarti sul palco di Madonna e fotografarti mentre guardi The Crown? Non c’è paragone, lo capite anche voi. Le uniche cose per cui siamo ancora disposti a pagare sono quelle che possiamo sfoggiare in pubblico come “esperienze”: la cena stellata sì, l’Oscar Mondadori no. Al massimo il Meridiano, che viene bene in foto).
La seconda questione è: forse questa è la rivincita degli adulti. Alcuni osservatori dei consumi hollywoodiani sostengono che l’inutilizzabilità a distanza dello stesso account farà sì che i ragazzi all’università non useranno più il Netflix pagato da papà. E pronosticano che non si faranno certo un abbonamento loro: con quei soldi possono comprarsi due birre, figuriamoci se li usano per vedere dei film. È un’ottima notizia: se i puccettoni non saranno più il suo pubblico di riferimento, magari Netflix smetterà di produrre solo roba per puccettoni o per adulti infantilizzati. Magari Scorsese non sarà più la copertura culturale a un catalogo di produzioni dementi. Magari si metteranno infine a fare quel che dovrebbe fare il capitalismo: tenere conto del potere d’acquisto degli adulti, non dei capricci ricattatori dei puccettoni di casa.