È Martedì grasso, metaforica conclusione di un periodo di gioia e di eccessi (nel senso più genuino del termine). Già consapevoli del meritato protagonismo delle dolci sfoglie fritte che accompagnano le sfilate in maschera lungo tutta la Penisola, abbiamo arricchito il nostro bagaglio culinario con le meno rinomate preparazioni dolci e salate proprie delle usanze del Nord e del Centro Italia. Prima di carnem levare nel rispetto dell’astinenza quaresimale, abbiamo diritto a un ultimo sontuoso banchetto: sapete immaginare una dispensa più feconda e variegata del Mezzogiorno?
Nove volte nove cose per il Martedì grasso abruzzese
Gli abruzzesi esorcizzano l’imminente periodo di rinunce che ogni buon cristiano sarà chiamato a onorare di qui a poco con un pasto luculliano, che si protrae da mattina a sera: una ricca colazione apre il convito con uova, fagioli, salumi e formaggi, frittata di salsiccia e un po’ di verdura invernale, tanto per sgrassare.
Questo antipasto “leggero” prepara lo stomaco ai primi piatti, che vedono in pole position i ravioli di ricotta diffusi in tutta la regione; e se nell’entroterra pescarese viene favorita la più “prevedibile” versione salata, nel teramano trionfa la variante dolce, in cui il ripieno a base di ricotta di pecora, zucchero e cannella sposa felicemente il classico ragù di carne della domenica.
E dopo la necessaria scorpacciata di carne, arriva il momento di nutrire quel celeberrimo stomaco “a parte” – ancora sconosciuto alla comunità scientifica – la cui esistenza è tuttavia comprovata dall’esperienza: via libera alle frappe, alle ciambelline di patate fritte e soprattutto alla cicerchiata, un anello di palline croccanti cosparse di miele e confettini colorati, tanto appiccicoso quanto irresistibile.
Panzerotti di ceci per il Carnevale campuasciano
Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare da un capoluogo, Campobasso si impegna a mantenere in vita il folklore di questa festa, in primis con le rappresentazioni che vedono protagonista la maschera dei Briganti, rievocando un’epoca in cui il Molise combatteva contro l’Unità d’Italia; ma anche le tradizioni gastronomiche non vengono tenute meno in considerazione.
Così accanto alle più famose scorpelle, ciambelline di pasta cresciuta fritte e ricoperte di zucchero, troviamo i calcioni: questi panzerotti di pasta frolla (all’olio) vengono farciti con un composto a base di ceci, cacao amaro e spezie; inutile dirvi che sarebbe impossibile individuare dosi e ingredienti esatti, dunque fatevi guidare dai vostri gusti, aggiungendo zeste di agrumi, liquori e quello che vi suggerisce il cuore.
A Farrète bullénde passeggiando sul lungomare di Manfredonia
I tempi delle “socie” sono scolpiti nella memoria dei manfredoniani che nel primo dopoguerra partecipavano al rito de “llu balle pe chese”: gruppi di giovani mascherati si spostavano per visitare le abitazioni allestite per l’occorrenza, attratti dalla “pista da ballo” abilmente ottenuta ammassando i mobili nelle stanze più interne o addirittura per strada. Secondo il cerimoniale, il primo brano suonato dal giradischi coinvolgeva le fanciulle del sito ospitante e i visitatori stranieri, poi avveniva lo scambio e toccava alle dame in visita; il terzo giro (di congedo) era per tutti.
Un’usanza mai tramontata, popolare anche tra le nuove generazioni, è quella di gustare una farrata calda di forno, possibilmente in riva al mare: si tratta di un rustico farcito con ricotta di pecora e grano bollito (un tempo si usava il farro, di qui il nome), maggiorana, pepe e cannella.
Le origini di questo dolce sono molto antiche e potrebbero addirittura risalire al rito del matrimonio romano arcaico – la confarreatio – durante il quale gli sposi si spartivano una focaccia di farro. E anche se oggi assume un significato decisamente più frivolo, custodisce con dolcezza la memoria di un passato di agricoltura, pesca e pastorizia ancora vivo sul territorio sipontino.
La “lasagna” bianca di Castelvenere
In occasione dei festeggiamenti del Santo Patrono, San Barbato, le famiglie del piccolo comune in provincia di Benevento preparano questo piatto di recupero ricco di gusto e di calorie: la ricetta ben si sposa con il senso del carnevale, inteso come percorso di avvicinamento all’astinenza quaresimale e dunque perfetto per esaurire le grasse rimanenze in vista del periodo di magro.
I pezzi di salsiccia a contatto con la pertica durante la stagionatura vanno consumati, in quanto troppo freschi per essere conservati, e le uova sono sempre più abbondanti con l’arrivo della primavera; anche il primosale invade le dispense dei contadini, che lo avevano ricevuto dai pastori delle alture matesine come moneta di scambio atta a ricompensarli per l’ospitalità invernale.
Questi tre ingredienti diventano la farcitura della “scarpella”: una pasta in bianco cotta lentamente sui mattoni del camino, per un risultato croccante all’esterno – grazie all’abbondante sugna usata per ungere la teglia – e morbido al cuore.
La frittata di pasta lucana con il tartufo dei poveri
Dobbiamo ringraziare i Normanni per aver introdotto quello che è il sapore principe di un piatto che compariva sulle tavole di agricoltori e pastori lucani a partire dal giorno di Sant’Antonio Abate (17 gennaio). La radice del rafano – altrimenti detto “u tartuf’ d’i povr’ òmm” – viene grattugiata e amalgamata a un composto di uova e pecorino: il tutto viene cotto al forno, in una teglia “benedetta” dallo strutto, anche se la cottura tradizionale prevedeva l’uso della brace, che avvolgendo il recipiente di terracotta conferiva un caratteristico sentore affumicato. Anche se oggi è di moda aggiungere patate lesse e salumi, vi consigliamo di assaggiare la versione originale in una delle numerose sagre dedicate alla cosiddetta “rafanata”.
Il “riso ripieno” calabrese
Il re dei banchetti carnascialeschi calabresi è sempre stato il maiale, oggetto di venerazione su tutto il territorio regionale, al punto da essere disposti a barattare il lavoro dei propri figli con una razione di carne per il Giovedì grasso: «Jiuòvi di lardaruolu cu’ non ava carni si ‘mpigna lu figghiolu». Il frutto delle fatiche dei giovani garzoni finiva anche nel piatto di riso del martedì successivo – ‘u marti ‘e l’azata – ovvero il “giorno dell’alzare”, quello in cui si doveva togliere la carne dalla tavola per iniziare i doverosi quaranta giorni di penitenza.
Oggi le “scuole di pensiero” sono molteplici: c’è chi lo mangia il giovedì e chi lo mangia il martedì, chi preferisce la salsiccia fresca sbriciolata a mo’ di ragù e chi la trasforma in polpettine, chi cuoce il riso in acqua salata servendolo tal quale in accompagnamento al sugo e chi ama la crosticina regalata dalla cottura in forno. La regola è una sola: usare il maiale.
Il minestrone poco light dell’antica Contea di Modica
Come si narra ne “Il carnevale della contea di Modica” – edito nel 1886 – la cittadina barocca ha l’usanza ormai centenaria di onorare il Giovedì grasso con una succulenta zuppa di verdure. Il soffritto a base di aglio, cipolla e prezzemolo viene insaporito con l’immancabile maiale in veste di lardo tagliato a cubetti, e va ad accogliere fave secche, patate, carote, sedano e zucchine; dopo aver cotto a sentimento in acqua abbondante si ottiene u maccu lurdu, da gustare in purezza o con i tipici “lolli” modicani (grossi cavatelli di pasta fresca).
In questo percorso lungo lo Stivale, tra antiche maschere e carri allegorici, abbiamo acceso i riflettori su un panorama gastronomico costellato di abitudini affascinanti e inaspettate, capaci di evocare curiosità ed emozione, soprattutto laddove il ricordo è più “vicino”, per quanto sfocato. Non ci resta che trarre ispirazione da questo prezioso patrimonio e cucinare qualcosa di speciale per celebrare degnamente l’ultimo giorno di Carnevale.