Tra i brutti neologismi che dal gergo burocratico-politico tendono a passare a quello giornalistico e di qui a insidiare il linguaggio comune, uno dei più inascoltabili è il verbo attenzionare. Un “mostriciattolo”, lo definì il cronista parlamentare Gino Pallotta, tra i primi a rimarcarne la dolorosa comparsa, nel suo Dizionario della politica italiana edito da Pisani nel 1964. Neppure troppo nuovo, dunque, come neologismo; anche se, dopo essere rimasto a lungo relativamente silente, soltanto dagli anni Duemila il virus ha cominciato a mostrare un indice di contagio che sarebbe imprudente sottovalutare.
Come, ad altro proposito, ricordava su queste pagine l’Accademia della Crusca, “ci sono due criteri principali per valutare la legittimità di una parola, la sua conformità alle regole di formazione delle parole e il suo uso effettivo nella comunità linguistica”.
Dal punto di vista delle regole di formazione, ha osservato la medesima Accademia in una consulenza linguistica firmata da Marina Bongi (24 aprile 2009), attenzionare non è scorretto: si tratta infatti di un verbo denominale – ossia costruito su un nome, in questo caso attenzione – che segue la flessione morfologica dei verbi denominali della prima coniugazione (correttezza altresì riconosciuta – sempre nell’anno di grazia 2009, sul portale della Treccani, “Lingua italiana” – da Silverio Novelli, che un po’ sorprendentemente giudicava quel verbo “né brutto, né bello”, sebbene, per parte sua, ammettesse che non lo avrebbe usato mai). Attenzionare si forma dunque nello stesso modo di relazionare o collezionare, verbi denominali nati da sostantivi che, in quanto molto frequenti, hanno determinato “l’esigenza di avere a disposizione il corrispettivo semantico nella categoria grammaticale del verbo” (ancora Bongi).
Al loro apparire, per la verità, anche relazionare e collezionare fecero storcere più d’un naso. Acqua passata. Ormai non se ne potrebbe fare a meno, anche perché in essi c’è effettivamente qualche cosa di più che nei verbi alla base dei sostantivi (nomi deverbali) a partire dai quali si sono formati. La catena è questa: verbo base → nome deverbale → verbo denominale. Relazionare deriva da relazione, in latino relatio, da relatus, participio passato di refero, che significa porto indietro, riporto, ma anche riporto nel senso di riferisco; allo stesso modo collezionare è costruito su collezione, in latino collectio, da collectus, participio passato di colligo, raccolgo, raduno. Ma relazionare non è soltanto riferire, bensì riferire nella forma compiuta e organizzata di una relazione; così come collezionare non è soltanto raccogliere, ma raccogliere in modo ordinato e secondo precisi criteri noti al collezionista.
Mentre però relazionare e collezionare hanno, in aggiunta alla correttezza morfologica, una univocità semantica saldamente radicata nell’etimologia, lo stesso non si può dire di attenzionare, il cui uso effettivo nella comunità linguistica evidenzia un’oscillazione che ne rende problematica la legittimità.
Anche alla base di questo verbo c’è un sostantivo che nella sua origine latina è un nome deverbale, attentio, da attendo, formato da ad + tendo, ossia “tendo, rivolgo (la mente) a”. Ma mentre refero e colligo producono (il nome di) qualche cosa (una relazione, una collezione), e questo senso produttivo si mantiene nei connessi verbi denominali (relazionare = fare una relazione, collezionare = fare una collezione), attendo dà luogo invece al nome di uno stato o processo mentale: l’attenzione è lo stato di chi “tende (o rivolge) la mente a”, e quindi la “tensione mentale verso” (o “concentrazione su”) qualcosa o qualcuno. Di conseguenza attenzionare non vuol dire produrre qualche cosa (chi “fa attenzione” non produce attenzione ma sta attento), bensì attivare verso qualche cosa quel genere di tensione. Il referente dell’azione espressa dal verbo, ciò verso cui si volge (su cui si concentra) la mente, è quindi messo sotto attenzione, o in altri termini è attenzionato.
Ma un primo problema sorge già quando diciamo, per esempio, “attenzionare una pratica a qualcuno”. Il complemento oggetto di attenzionare è la pratica (ma in altri casi potrebbe essere una persona, tipicamente un individuo sospetto), mentre il qualcuno a cui viene attenzionata è il complemento di termine: quindi dire “attenzionare una pratica a qualcuno” sarebbe come dire “attivare a qualcuno la tensione della mente verso una pratica”.
Un po’ acrobatico, no? Tanto più che, a rigor di logica, la “tensione verso” si attiva propriamente nell’animo di chi attenziona: non possiamo “tendere verso qualche cosa” la mente di un’altra persona, anche se possiamo fare in modo che quel genere di tensione in questa persona si attivi. In tal caso, però, attenzionare si allontana un po’ dal senso proprio della sua matrice latina – il verbo attendo, nelle sue tre persone singolari e plurali, può solo avere come oggetto, esplicito o implicito, l’animum di chi compie l’azione di attendere – per assumere un diverso significato: come nell’espressione “attenzionare le autorità”, dove il verbo è usato quale sinonimo di esortare, sollecitare, indurre, richiamare l’attenzione.
E però – ecco un altro problema – in questa seconda accezione il referente dell’azione espressa dal verbo attenzionare non è più una cosa o una persona su cui si concentra l’attenzione, ma una persona di cui è sollecitata l’attenzione, e che in questo senso è qualche cosa di più che semplicemente avvisata, o avvertita, o allertata, perché (almeno nei voti) è resa attenzionante. E dunque quando attenzioniamo una persona (con una cosa il dubbio non si pone) intendiamo dire che la rendiamo attenzionata o attenzionante? Il contesto non sempre è sufficiente a chiarire. L’opposto destino a cui va incontro il referente di attenzionare contrassegna l’ambiguità semantica di questo brutto verbo. E dovrebbe bastare a sconsigliarne l’uso.