Entro il 2050 nessun edificio dell’Unione europea potrà più produrre emissioni dirette di anidride carbonica, e dunque dovrà fare a meno dei combustibili fossili per il riscaldamento e il raffrescamento. Questa è la stella polare della revisione della direttiva sulla prestazione energetica nell’edilizia, ribattezzata “case green” nel dibattito politico italiano.
La navigazione verso un obiettivo così lontano nel tempo appare però turbolenta: prima o poi tutti i nuovi edifici dovranno essere a emissioni zero e includere pannelli solari sui propri tetti e, prima o poi, tutti gli edifici già esistenti dovranno migliorare la propria classe energetica. Sulle date d’inizio di questi obblighi e sulle deroghe concesse si gioca una partita molto ampia, che coinvolge molti interessi nazionali, di settori industriali e partiti politici.
Prima o poi?
Ora che il Parlamento europeo ha approvato la propria posizione negoziale sulla modifica della direttiva, proposta dalla Commissione europea a fine 2021, possono iniziare i negoziati con il Consiglio dell’Ue, dai quali uscirà la versione definitiva del testo legislativo. L’organo che rappresenta i ventisette Paesi membri dell’Unione ha, come spesso accade, una visione conservativa rispetto a quella dell’Eurocamera sui temi ecologici, spingendo per una transizione più graduale verso la decarbonizzazione e per modifiche più dilazionate nel tempo.
«Nel negoziato vedo due grossi punti di scontro: le date limite per attuare gli efficientamenti e le possibili deroghe per alcuni immobili», dice a Linkiesta Ciarán Cuffe, l’eurodeputato irlandese dei Verdi/Ale che è stato relatore per la direttiva in Parlamento. Nel primo caso, il Consiglio indica il 2030 come l’anno a partire dal quale si potranno costruire solo edifici senza emissioni, con la deadline al 2028 per quelli gestiti o di proprietà delle autorità pubbliche. Il Parlamento, invece, vorrebbe anticipare i tempi di due anni: 2026 per quelli pubblici, 2028 per tutti gli altri.
Una discrepanza simile si registra sull’installazione dei pannelli solari, che per gli Stati membri vanno messi dal 2027 in poi su tutti i nuovi edifici pubblici e a uso non residenziale con una superficie superiore a duecentocinquanta metri quadri, e solo dal 2030 su tutti gli altri. L’Eurocamera fissa invece la scadenza al 2028, concedendo fino al 2032 per gli edifici residenziali sottoposti a ristrutturazioni importanti.
Ma la battaglia più accesa sembra quella intorno alle costruzioni già esistenti, cioè le attuali abitazioni dei cittadini europei, che dovranno necessariamente migliorare le proprie performance energetiche: nell’Ue al momento gli edifici sono responsabili del quaranta per cento del consumo energetico e del trentasei per cento delle emissioni di gas a effetto serra.
Il Parlamento ritiene sia necessario farlo in modo spedito: gli edifici residenziali devono avere come minimo la classe di prestazione energetica E entro il 2030 e D entro il 2033 (per gli edifici non residenziali e quelli pubblici scadenze anticipate rispettivamente a 2027 e 2030). Il Consiglio, invece, ha concordato un piano di efficientamento diverso: classe D entro il 2033, un valore specifico diverso per ogni Paese entro il 2040, per arrivare alle emissioni zero entro il 2050.
Poi ci sono le deroghe. Quelle proposte dal Parlamento sono già abbastanza ampie, secondo il relatore: edifici dal particolare valore architettonico o storico, case per le vacanze, chiese e luoghi di culto. «Inoltre ogni Paese membro può esentare dall’efficientamento il ventidue per cento degli alloggi sociali di proprietà pubblica, se le ristrutturazioni comportano aumenti degli affitti superiori ai risparmi in bolletta, o anche solo per mancanza di manodopera qualificata. Alcuni Stati useranno tutta questa quota». Il Consiglio tuttavia vorrebbe qualche esenzione in più, tra cui quella per gli edifici destinati a scopi di difesa.
Tra gli Stati membri, spiega Ciarán Cuffe, alcuni sono più ostili verso la posizione dell’Eurocamera e spingeranno per una linea dura nei negoziati. Preoccupazioni sull’applicazione della direttiva sono state sollevate da Germania, Finlandia, Romania e soprattutto dall’Italia. «Sicuramente il governo di Giorgia Meloni è stato molto critico. Mi sembra che il suo partito si opponga spesso alle direttive dell’Unione europea».
La difficile situazione italiana
L’Italia è con ogni probabilità uno dei Paesi dove l’attuazione della direttiva potrebbe rivelarsi più complicata, e quasi sicuramente quello dove il dibattito politico sul tema sarà più divisivo. Per diversi motivi: intanto, secondo i dati Censis, il 70,8 per cento delle famiglie italiane è proprietario della casa in cui vive e l’8,7 per cento gode di un’abitazione in usufrutto o a titolo gratuito, cioè quasi sicuramente ereditata dai familiari.
Tra gli edifici a uso residenziale presenti sul territorio nazionale, il 34,3 per cento appartiene alla classe energetica G e il 25,4 per cento alla F. Più di metà delle case degli italiani, dunque, sembrano necessitare oggi di un efficientamento energetico, anche se la direttiva prevede pure una riclassificazione del patrimonio immobiliare di ogni Paese con la classe G occupata soltanto dal «quindici per cento degli edifici con le prestazioni energetiche peggiori in ogni Stato membro».
Secondo le stime dell’Associazione nazionale costruttori edili (Ance), circa due milioni di edifici italiani dovranno essere riqualificati, con un investimento totale compreso tra i quaranta e i sessanta miliardi di euro ogni anno. La preoccupazione di molti esponenti politici e associazioni di categoria è che i lavori di miglioria si traducano in costi esorbitanti per le famiglie. Così la pensa Isabella Tovaglieri, europarlamentare della Lega e relatrice ombra della direttiva all’Eurocamera.
«Per l’Italia gli obiettivi non sono difficili da raggiungere, sono del tutto impossibili. Il settantacinque per cento degli immobili residenziali è in una classe energetica inferiore alla D: per ristrutturarli tutti, servirebbero seicentotrenta anni». Il riferimento è a una proiezione dell’Ance, che «senza un sistema di incentivi e di strumenti finanziari adeguati» prevede addirittura un orizzonte iperbolico di tremilaottocento anni per la completa decarbonizzazione del patrimonio edilizio nazionale.
Tovaglieri, che apprezza di più la posizione del Consiglio rispetto a quella del Parlamento, sottolinea altri elementi di criticità relativi all’Italia: a partire da «una proprietà diffusa fra le famiglie e del ceto medio, che spesso non possono affrontare una spesa media di trentacinquemila euro per ristrutturare il proprio appartamento», fino al «patrimonio abitativo molto vetusto» di diverse città italiane, con decine di migliaia di abitazioni dei centri storici che non rientrano nelle esenzioni.
Anche per questo la Lega aveva presentato un emendamento, respinto in aula, per spostare in avanti di almeno cinque anni le deadline. «La nuova direttiva porterà subito alla svalutazione delle case, costringendo i proprietari a indebitarsi per efficientare il proprio immobile nel giro di pochi anni».
L’eurodeputata leghista definisce poi il provvedimento «zoppo» per la mancanza di fondi adeguati a corredo degli obiettivi ambiziosi: «Sia il testo del Consiglio che quello del Parlamento menzionano in modo generico risorse che si possono attingere dal Pnrr, dal Fondo sociale per il clima e dai fondi di coesione. Mentre l’istituzione di un Energy performance renovation fund per incentivare investimenti pubblici e privati è ventilata solo come possibilità, e non come obbligo».
L’attuale vaghezza del contributo finanziario per le riqualificazioni è ammessa anche da Patrizia Toia, eurodeputata del Partito democratico che invece ha votato a favore della relazione di Cuffe. Pur lamentando la mancanza di uno stanziamento ad hoc nella posizione del Parlamento, si mostra decisamente più ottimista sull’orizzonte generale: «Si tratta di un provvedimento di carattere strutturale: c’è una prospettiva, una strategia di lungo termine». A suo dire la direttiva consentirà, tramite i piani nazionali previsti dal testo, di adattare gli obiettivi comuni in base alle realtà specifiche di ogni Paese.
Per l’Italia, sostiene Toia, sono state fatte stime «allarmistiche» sul numero di edifici da ristrutturare, «strumentalizzando la paura delle persone contro un provvedimento che in realtà aiuta a migliorare la qualità dell’aria e della vita». Adesso, aggiunge, «è impossibile fare una previsione, perché il ricalcolo delle classi energetiche gioca un ruolo cruciale. Visto che secondo la direttiva le categorie verranno ridefinite a partire dal quindici per cento degli immobili meno efficienti, non tutti quelli che ora sono nella classe G ci resteranno».
L’europarlamentare sottolinea il beneficio per l’economia italiana nel suo complesso che arriverà dall’«ondata di ristrutturazioni», pur non nascondendo preoccupazioni per l’impatto sulle categorie più vulnerabili della popolazione: persone che non dispongono di un capitale iniziale necessario per le ristrutturazioni, a cui va garantita una particolare attenzione da parte della politica.
In ogni caso, prevede Patrizia Toia, l’esito del negoziato sarà probabilmente un restringimento del campo di applicazione della direttiva (rispetto alla posizione dell’Eurocamera) o un dilazionamento dei tempi per effettuare le ristrutturazioni. «Come sempre il Parlamento alza l’asticella e il Consiglio l’abbassa un po’: succederà così anche questa volta. La cosa non mi scandalizza. L’importante è che non si perda il senso della direttiva e il suo contributo alla decarbonizzazione», conclude.