Le comunità energetiche rinnovabili (Cer) stanno emergendo come una delle soluzioni più innovative per la transizione verso un sistema energetico più sostenibile, non solo dal punto di vista ambientale. Grazie alla condivisione di risorse prodotte da fonti pulite, permettono di decentralizzare la produzione e distribuzione di elettricità, aumentando l’efficienza complessiva del sistema. In Italia, al momento, ci sono poco più di una trentina di impianti. Il che pone il nostro Paese in fondo alla classifica delle principali Nazioni europee. Ma l’ambizione è altra, ossia quella di invertire la tendenza da qui al 2027 grazie ai fondi del Pnrr (2,4 miliardi). L’obiettivo del governo Meloni è di arrivare a quota quindicimila.
Come spiegavamo qui, le comunità energetiche sono delle associazioni senza scopo di lucro di cittadini, attività commerciali, piccole o medie imprese locali e amministrazioni che scelgono di dotarsi di impianti condivisi finalizzati all’autoconsumo, alla produzione e allo scambio di energie pulite (solare, eolico). In sostanza, parliamo di soggetti giuridici composti da persone e aziende che uniscono le forze per produrre rinnovabili, massimizzando i benefici e riducendo i costi che affronterebbero individualmente.
In Italia la legge che ne autorizza la costruzione e le riconosce come soggetto giuridico è relativamente recente (risale al secondo governo di Giuseppe Conte), e finora ha rappresentato solo un primo (piccolo) passo nella diffusione di questo sistema. Alcune delle misure previste dall’ultima norma, infatti, sono state considerate troppo restrittive perché consentono solo la costruzione di impianti con una capacità limitata. Si tratta, non a caso, di una fase di sperimentazione. E mentre alcune Regioni cominciano a procedere per conto proprio, cresce l’attesa per il decreto attuativo in grado di sbloccare decine di impianti.
Dopo una serie di ritardi, forse ci siamo. Come annunciato dal ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin, grazie ai fondi post-Covid stanziati da Bruxelles (è previsto un nuovo decreto attualmente in fase di valutazione dalla Commissione europea) saranno attuate nuove regole finalizzate a semplificare la burocrazia e ad ampliare la capacità massima consentita per gli impianti. Inoltre, dovrebbero arrivare misure economiche più favorevoli e verranno messi a disposizione dei finanziamenti per accelerare la realizzazione degli impianti.
Le comunità energetiche rinnovabili, così come i gruppi di autoconsumo collettivo (ad esempio in un singolo condominio), trovano le loro radici nell’antica tradizione dei terreni condivisi, una pratica nel passato molto diffusa in Germania e Inghilterra (common land), ma anche in Italia (terreni demaniali), specie nel Trentino-Alto Adige. Oltre ad essere un modello di sostenibilità ambientale ed economica, le Cer rappresentano un’opportunità di partecipazione attiva dei cittadini alla gestione dell’energia, favorita dalle politiche di incentivazione delle fonti rinnovabili e dalla diffusione di tecnologie sempre più efficienti.
L’aspetto sociale non va sottovalutato, perché in realtà, come riportano diversi studi, è il più importante dato che la comunità energetica nasce e prospera soprattutto nei territori in cui è già presente una buona propensione alla coesione comunitaria, ossia un forte senso della comunità e una cultura sviluppata della condivisione.
Nonostante ciò, del triplice modello di convenienza delle Cer, economico, ambientale e sociale, molto si è scritto sui primi due aspetti, mentre molto meno si sa di quest’ultima caratteristica. Come ha spiegato a Linkiesta il professor Luigi Pellizzoni, docente di Sociologia dell’ambiente all’università di Pisa, «la dimensione ottimale (delle Cer, ndr) è quella in cui esiste una un sottofondo culturale condiviso: questo permette di mantenere il particolare statuto di autonomia locale e non trasformarle in società per azioni».
Esistono però anche casi di comunità energetiche autosufficienti più ampie, che coinvolgono interi quartieri e piccoli paesi e addirittura riescono anche a collegarsi alla rete nazionale. In questi casi, è necessaria la mediazione di un ente o un’associazione ecologista che possa fare da tramite anche tra persone che non si conoscono, trovando delle intenzioni comuni. «Qui, però, si entra nella logica dell’associazione con rapporti formalizzati», aggiunge l’esperto, ma è l’unico modo per gestire comunità molto più grandi.
Interpellato da Linkiesta, l’ingegnere ambientale di Enea Francesca Cappellaro ha detto che bisogna considerare che «le comunità energetiche possono diventare anche uno strumento di dialogo e di connessione in grado di riattivare territori considerati dormienti, come ad esempio le periferie o alcuni quartieri più svantaggiati».
Il professor Pellizzoni ha poi messo in luce il concetto di empowerment delle comunità che si associano nelle Cer. «La comunità locale riesce a visualizzare il proprio impatto energetico più facilmente e quindi anche a trovare forme di reciproco controllo e supporto per la presa di una decisione». In queste comunità, infatti, non è il singolo consumatore che si rivolge a un fornitore di servizi e compra un servizio come comprerebbe un’automobile, ma il soggetto che agisce diventa la comunità stessa.
In questo modo, «viene rafforzata nella sua capacità di agire». In alcuni casi poi si crea la situazione in cui la comunità diventa totalmente autonoma dal punto di vista energetico, e questo significa che il consumatore diventa insieme anche produttore. Un nuovo ruolo per il soggetto economico che nell’ambito della sharing economy viene denominato “prosumer”, ossia un singolo utente o gruppo proattivo e autosufficiente.
L’obiettivo sociale che anima le Cer è ambizioso, «perché agisce direttamente sugli stili di vita delle persone – spiega il professore – e prova a responsabilizzare i membri della comunità che si ritrovano a doversi confrontare con i fornitori di energia rinnovabile». In questo modo la grande tematica della transizione ecologica, che sembra un problema difficile e lontano, entra a far parte della vita quotidiana dei singoli utenti. E in più la responsabilità delle scelte energetiche, che usualmente appartiene al singolo consumatore, in questo modo viene estesa all’intera comunità, così che le scelte sostenibili, ampliando il proprio raggio di efficacia, abbiano un reale impatto sul territorio.
Un altro effetto delle Cer studiato nella letteratura sociologica è quello che viene chiamato “energy democracy” (democrazia energetica). Si tratta di una concezione che ribalta gli equilibri politici tradizionali della gestione di un territorio. «In questo caso – spiega Pellizzoni – i destinatari del servizio sono anche quelli che prendono le decisioni relative a come gestirlo». In questo modo è anche più facile controllare direttamente l’uso che si fa dell’energia e riuscire a individuare gli eventuali sprechi che si possono evitare.
Questo però non significa che sia tutto lasciato a carico dei cittadini: «Ovviamente ci deve essere sempre la mediazione di una consulenza da parte di esperti del settore che possa suggerire la soluzione migliore. Non è richiesto al singolo l’expertise tecnico che uno da solo normalmente non possiede», commenta il professore. In ogni caso, per quanto riguarda i processi decisionali della comunità, «rispetto alla normale lite di condominio, dove ognuno cerca di tirare l’acqua del proprio mulino, qui essendoci una motivazione condivisa dovrebbe essere un incentivo a trovare l’accordo», conclude Pellizzoni. Un esempio pratico di questa dinamica è il progetto Greta dell’università di Bologna in collaborazione con Enea. In questo contesto si è svolto un percorso partecipativo di ascolto del territorio in cui sono emersi i diversi bisogni a livello locale della comunità, permettendo così una partecipazione sullo stesso livello di tutti i suoi membri.
Come spiega Cappellaro, un’altro progetto seguito da Enea che si muove nella stessa direzione si chiama Geco e ha l’obiettivo di una efficace «gestione comunitaria della risorsa energetica locale per ridurre le distanze tra produzione e consumo, coinvolgendo abitanti, attività commerciali e imprese del territorio». Le aree coinvolte in questo progetto sono due quartieri della periferia bolognese: Pilastro e Roveri.
«Abbiamo avviato diversi percorsi formativi in collaborazione con le scuole e anche percorsi di formazione con associazioni locali per gli educatori in questo modo abbiamo fatto formazione sui temi della comunità energetica», racconta l’ingegnere di Enea. Lo stesso lavoro di formazione è stato attuato nei confronti delle imprese. E per alcune aziende è anche stato fornito un servizio di studi di fattibilità personalizzati che mostrasse i vantaggi di entrare nella comunità energetica. In questo modo è stato possibile per il Cap (Consorzio agroalimentare di Bologna) installare un impianto di biogas.
Legato all’ambito sociale, esiste anche il tema della povertà energetica. Come ha spiegato Cappellaro, «con le Cer può essere più facile affrontare il problema della povertà energetica. Ovvero il fenomeno per cui alcuni cittadini non riescono ad avere una fornitura di energia adeguata a quello che è il loro fabbisogno energetico».
Infatti, nella creazione di soggetti giuridici che hanno una loro autonomia nella produzione e nel consumo di energia possono essere definite delle regole fatte per favorire soggetti con questo tipo di fragilità. In questo modo sarebbe possibile garantire un accesso all’energia ad un costo minore a tutti gli utenti che ne hanno bisogno. Ovviamente, questa non è una caratteristica insita nelle comunità energetiche rinnovabili, ma scelte di questo tipo dipendono appunto dalle regole di statuto che la comunità sceglie di darsi.