Da qualche tempo, grossomodo dal 2014 in poi, ogni volta che in un Paese europeo si vota per le elezioni, il punto non è mai (o quasi mai) quali politiche economiche e sociali proponga questo o quel partito. Al contrario, il nocciolo vero delle discussioni è come si colloca questo o quel partito nei confronti di Vladimir Putin. Gli è vicino? Gli è amico? Preferisce il modello di dittatura russo a quello di democrazia europea? Vuole indebolire l’Ue in modo da rafforzare il peso internazionale di Putin?
Questo grande discrimine è, in buona sostanza, quello che ha fatto la differenza in tutte le elezioni europee dal 2014 in poi. Gli esempi non si contano e vanno da Brexit alle elezioni italiane del 2018, dallo scossone al consenso di Angela Merkel alle elezioni in Assia del 2018, ai patemi delle presidenziali francesi.
Il punto, insomma, non è mai (solo) come ogni partito governerà il suo Paese, ma quanto rafforzerà il progetto europeo. Se la risposta è «sì, lo rafforzerà e lo sosterrà» allora potremo dire di trovarci dinanzi a un partito non Putiniano. Se la risposta è «così così», allora il sospetto di vicinanza a Putin e al suo modo di fare è legittimo. Questo perché dopo anni di convivenza, crollati dopo l’annessione della Crimea nel 2014, Ue e putinismo hanno dimostrato di essere progetti incompatibili. Dove c’è uno non può esistere l’altro.
La ragione ha a che fare con l’equilibrio fragile su cui si regge il putinismo stesso. Se a Putin può fare solo piacere avere al suo occidente un partner commerciale solido e ricco, allo stesso modo non può tollerare la vicinanza di una potenza democratica e libera, le cui sirene potrebbero far venire strane idee democratiche ai russi, o attirare Paesi, come – appunto – l’Ucraina, che la Russia considera per diritto suoi satelliti.
Per questo ogni elezione d’Europa, anche la più locale, dal 2014 in poi, ha avuto come perno Putin e il putinismo. Rigettarlo o sposarlo. Così, in questa fase storica, indebolire l’Europa significa rafforzare il putinismo. Soffiare forte nelle vele dell’Ue, invece significa opporsi al putinismo e quello che rappresenta in termini politici e culturali.
Questa contrapposizione, iniziata dopo i fatti di Crimea, si è ovviamente inasprita nell’ultimo anno, da quando Putin ha preso a marciare su un Paese quasi europeo, e da quando l’Ue ha iniziato a schierare le sue armi (anche economiche) contro i carri armati russi.
Anche per questo, da un anno a questa parte, ogni voto nazionale ha un peso internazionale enorme. Perché chi vince le elezioni in un Paese europeo, poi siede di diritto al tavolo del Consiglio e da lì, di voto in voto e di veto in veto, può indirizzare e piegare le politiche europee in termini di guerra, di difesa, di rigore nell’opporsi all’invasione russa.
Si spiega così la grande attesa che c’era per le elezioni estoni di domenica scorsa. Perché le elezioni avrebbero deciso la sorte del governo (super europeista) della premier Kaja Kallas.
Kallas, vuoi per il suo vissuto personale (sua madre e sua nonna erano state deportate su un carro bestiame fino in Siberia durante gli anni dello stalinismo; suo padre è stato primo ministro e commissario europeo), vuoi per la consapevolezza di essere a capo del governo di un Paese confinante con la Russia, ha mostrato fin da subito una particolare intransigenza verso le intemerate di Mosca.
È stata lei a strattonare Emmanuel Macron e Olaf Scholz quando, la scorsa estate, sembravano insistere affinché l’Ucraina rinunciasse a parte del suo territorio; è stata lei a fermare del tutto (insieme a Lituania e Regno Unito) l’arrivo di gas russo nel suo Paese, già da prima che la crisi energetica trovasse soluzioni. È stata lei a rendere l’Estonia il Paese che più di ogni altro al mondo contribuisce alla difesa ucraina in proporzione al Pil: Tallinn ha inviato armi e aiuti per l’equivalente dell’uno per cento del suo Pil; gli Stati Uniti, per esempio, appena per lo 0,3 per cento.
Per questo le elezioni di domenica non servivano solo per sapere chi avrebbe governato l’Estonia, ma anche per sapere come e quanto la linea dura paghi in termini elettorali. Quanto e come, un Paese come l’Estonia sia permeabile o immune alla propaganda putiniana.
Sul tavolo, a cercare risposte a queste domande implicite, c’erano due grandi partiti. In realtà ce n’erano di più, perché il sistema estone è proporzionale e non prevede alleanze o coalizioni prima del voto, ma il grosso della sfida era a due. Da un lato il partito dell’ultradestra nazionalista (anti Ue e filo Putin) di Ekre, che al Parlamento europeo si colloca nel gruppo Identità e Democrazia (quello della nostra Lega); dall’altro il Partito della Riforma, quello di Kallas, una formazione moderata di centro destra che a Strasburgo e Bruxelles siede tra i libdem di Renew Europe (quello del nostro Terzo Polo).
La campagna elettorale ha avuto al centro due grandi temi: l’inflazione (che nel Paese ha raggiunto il venti per cento) e la politica di guerra. Le ricette proposte erano ovviamente diverse. Per Ekre la soluzione all’aumento dei prezzi era smetterla di cincischiare con le energie verdi e riaprire le porte al gas russo, così da abbassare le bollette; per i riformatori di Kallas, invece, la soluzione era abbassare le tasse alle imprese e ai lavoratori.
Quanto alla guerra, invece, per Ekre, l’Estonia avrebbe immediatamente dovuto smetterla di mandare soldi e armi all’Ucraina, per usare quegli stessi soldi e quelle stesse armi per proteggere i suoi cittadini e i suoi confini. Per Kallas, invece, l’unico modo per chiudere questa guerra è vincerla, e dunque portare la spesa militare al tre per cento del Pil e sostenere con la massima forza possibile Volodymyr Zelensky e i suoi. Trovatisi dinnanzi a queste due opzioni ideologiche gli elettori estoni hanno scelto.
E lo hanno fatto in modo molto chiaro, sia presentandosi alle urne (anche digitali) con l’affluenza più alta mai registrata nel Paese (67 per cento), sia facendo superare al partito della riforma di Kallas la quota del trentadue per cento (ad oggi, per la politica estone, un record), sia ridimensionando Ekre dal diciannove al sedici per cento, sia soprattutto dando grande sostegno a un piccolo partito europeista come Estonia 200 (anch’esso nell’alveo di Renew Europe) passato dal 4,4 per cento di pochi anni fa al tredici per cento di ieri.
Un risultato chiaro che darà a Kallas le chiavi di un secondo mandato, con una maggioranza tutta europeista e a Putin la notizia che l’Estonia è ogni giorno sempre più lontana da Mosca.