Narva è, per popolazione, la terza città dell’Estonia: circa sessantamila persone. Però, se ci si cammina per strada, in questo pezzo di Estonia, la lingua che si sente parlare è il russo, i cartelli sono in russo, i piatti locali sono russi, le televisioni che si sentono gracchiare dalle finestre sono russe, la musica è russa, i libri nelle biblioteche sono russi. Le persone, in buona sostanza, sono russe. L’espressione «in buona sostanza», però, indica una sintesi affrettata e superficiale di una realtà complessa, che tutto richiede tranne fretta e superficialità.
In Estonia, paese di un milione e trecentomila abitanti, circa un quarto della popolazione appartiene alla minoranza dei «russi etnici». Significa che ci sono trecentomila persone nate in Russia, o discendenti da persone nate in Russia, che parlano russo e hanno tradizioni russe.
La loro presenza così alta è dovuta soprattutto alle massicce manovre di sostituzione etnica di epoca sovietica, quando migliaia di estoni poco graditi al regime furono presi e deportati in Siberia e altrettanti russi furono spediti in Estonia per «russificare» la regione e renderla omogenea alla madre patria.
Oggi l’Unione Sovietica non c’è più, e molti di quei «pionieri» sovietici spediti nel Baltico sono o morti o molto anziani. Ci sono però i loro figli e i loro nipoti che, per la quasi totalità (circa il settantacinque per cento) hanno cittadinanza estone, si sentono estoni, sono estoni. Ma pur nel loro sentirsi ed essere estoni (e quindi europei), hanno radici profonde al di là del confine.
Tutto questo ha fatto sì che, fino a un anno fa, l’Estonia, e soprattutto la città di Narva, fosse un esperimento riuscito di mescolanza, di convivenza, di contaminazione, il posto in cui si erano chiusi i conti con l’Unione Sovietica.
Qui, in questa città dove i palazzoni e le strade di epoca e stile sovietico si snodano attorno a un castello del 1200, vivono persone che, per il novanta per cento, sono madrelingua russa. Solo la metà di loro è cittadina estone, gli altri sono cittadini russi o apolidi.
Fino a un anno fa, gli abitanti di Narva che ne avevano la possibilità, se dovevano fare una spesa ricercata o se avevano semplicemente voglia di fare un giro in una grande città, attraversavano il confine con un permesso temporaneo e andavano a San Pietroburgo, che è più vicina a casa loro di quanto non lo sia Tallinn.
Allo stesso modo, sempre fino a un anno fa, gli abitanti di Ivangorod, la città gemella di Narva che sorge sull’altra sponda del fiume che fa da confine naturale, si recavano a Narva se volevano vedere un film non disponibile in Russia, o solo comprare al supermercato qualche prodotto bloccato dall’embargo.
Adesso come è facile intuire tutto è cambiato. Da Narva nessuno va più a San Pietroburgo, e da Ivangorod nessuno va più a fare la spesa a Narva. I consolati dall’una e dall’altra parte sono chiusi, e la mescolanza è andata a farsi benedire, insieme con l’aver chiuso i conti con l’Unione Sovietica.
Al loro posto è sorta una frattura silenziosa tra gli abitanti. Però, a stare sui lati opposti di questa frattura non ci sono i russofoni e gli estonofoni (che da queste parti quasi non esistono), ma i giovani e gli anziani.
I ragazzi sono cresciuti in Estonia, si sentono europei a tutti gli effetti e soprattutto si informano con i media europei e condannano senza esitare l’aggressione di Vladimir Putin. I più anziani, invece, vengono raggiunti solo da notizie russe, credono che Volodymyr Zelensky sia un nazistoide alcolizzato e che Putin sia stato costretto a difendersi.
Non è vero, ovvio. Ma gli ultimi anni ci hanno insegnato che le cose non devono essere vere per radicarsi nella testa delle persone e per lacerare le comunità. E così oggi Narva, che un tempo era il posto, la cicatrice dove la ferita dell’Unione Sovietica in Europa sembrava rimarginata, è diventata il posto dove quella stessa ferita ha ripreso a sanguinare.