La grande differenza tra l’era della non-pace e la Guerra fredda è il fatto che coinvolge la gente comune. È vero che le persone alle Hawaii e in altri luoghi erano solite partecipare a esercitazioni per prepararsi all’Armageddon nucleare. Ma la maggior parte dell’azione si è svolta lontano dalla loro vita di tutti i giorni – e di certo non sono stati invitati ai colloqui sul controllo degli armamenti a Reykjavik. Di contro, nella nostra epoca di non-pace la violenza si svolge nello smartphone che abbiamo in tasca, non nelle giungle del Vietnam o nei deserti dell’Afghanistan. Quindi anche noi dobbiamo contribuire all’attuazione di un’agenda per il disarmo.
Dalle relazioni umane sappiamo che esiste un unico principio fondamentale per qualsiasi forma di legittimità: il consenso. Ed è questo il grande assente da tutte le discussioni intorno alla connettività. Dagli accordi di libero scambio a Facebook, governi e imprese hanno promosso la connettività senza alcun serio tentativo di ottenere il consenso a livello nazionale o internazionale. La maggior parte dei paesi (democratici e non) ha ritenuto di non avere altra scelta che quella di accettare l’intero pacchetto economico, politico e valoriale. A livello nazionale le persone sentivano di non avere la possibilità di dire no o addirittura di chiedere di rallentare, data la profondità del consenso politico dietro l’agenda, mentre alcune aziende globali hanno operato nella quasi totale assenza di freni inibitori. Di fatto, politici e imprese hanno lasciato intendere che facevano ciò che facevano a fin di bene, e che in ogni caso non c’era alternativa. Teoricamente era possibile decidere di chiamarsi fuori da tutto questo, a patto di essere la Corea del Nord o di rifiutarsi di usare i moderni mezzi di comunicazione. Ma la maggior parte delle persone ha dovuto sostanzialmente scegliere tra «tutto o niente». Questa connettività non consensuale ha prodotto varie forme di resistenza o vere e proprie rivolte.
Un’agenda alternativa dovrebbe prevedere sforzi considerevoli finalizzati a ottenere un consenso reale al contatto tra i popoli e le nazioni.
[…] Naturalmente questo approccio solleva un interrogativo più grande: il consenso di chi? E come si deve ottenere? Prendiamo come punto di partenza il Regno Unito e l’UE: l’adesione del Regno Unito all’UE si è basata sul consenso esplicito espresso dal Parlamento e dai cittadini in un referendum. La contro-argomentazione dei sostenitori della Brexit è che i cittadini acconsentirono a una versione più limitata dell’Europa, ma non a tutto ciò che è arrivato in seguito. Ed è vero che non c’è mai stato un vero impegno nel costruire il sostegno per il livello di migrazione comportato dalla libera circolazione dopo l’allargamento dell’Unione. L’argomentazione si limitava ad affermare che si trattava di un beneficio economico netto e che la gente avrebbe dovuto conviverci. Allo stesso modo, a oggi non c’è stato alcun serio tentativo di relazionarsi con quel 48% che ha votato per restare nell’UE e che si sente ugualmente abbandonato e privato dei propri diritti.
[…] Questo libro spiega i molti modi in cui la globalizzazione – e in particolare la rivoluzione digitale – aumentano le probabilità di conflitto. Captiamo già i segnali di ciò che ci aspetta quando la nostra economia globale unificata viene messa in crisi da schermaglie sull’accesso ai vaccini, dall’aumento dei prezzi dovuto a ritardi nelle filiere produttive, da campagne di disinformazione fuori controllo, dal ricorso diffuso alle sanzioni, dalla politicizzazione dei flussi di rifugiati e dalle discussioni sul protezionismo del cambiamento climatico. Se non controllata dalle nostre azioni, la logica conclusione di queste tendenze sarebbe un mondo distopico di disuguaglianza di massa, in cui la politica dell’invidia conduce a leggi sempre più violente e aggressive e i legami che ci uniscono forniscono armi sempre più affilate con cui combattere questo conflitto.
[…] Le realtà del Covid-19 e del cambiamento climatico hanno fatto proliferare le evocazioni di scenari apocalittici, ma i nostri leader e i nostri concittadini hanno faticato a modificare i loro comportamenti per scongiurarli. Se falliscono, il costo dell’assenza di pace potrebbe essere una discesa in quel tipo di distruzione che ha cominciato a svanire dalla memoria vivente di gran parte della popolazione mondiale.
Ma non sono un fatalista. Il fatto che si siano affermate delle tendenze negli ultimi anni non significa che il nostro declino sia inevitabile. La storia umana non è predeterminata. La politica ha il potere di invertire la rotta. A dire il vero, con i recenti cambiamenti in America e in Europa, lo ha già fatto. Il Covid ha cominciato a delineare l’avvio di un quadro di cooperazione per le future pandemie (anche se l’Occidente e la Cina non hanno ancora unito realmente le forze). Stiamo sviluppando un dibattito più sofisticato su come gestire la tecnologia che ci ha permesso di sviluppare vaccini, nutrire il mondo, immagazzinare energia rinnovabile e connettere il mondo. Gli imponenti piani di ripresa approntati in Europa e in America – unitamente al succitato rinnovamento politico – dovrebbero consentire a entrambi i continenti di ricostruire meglio. Hanno già mosso alcuni dei passi che ho inserito nella mia terapia per il mondo connesso, lavorando per stabilire confini sani, prendendosi cura di sé e cercando un maggiore consenso da parte dei cittadini.
In tempi di grandi mutamenti è più seducente indicare la strada per una nuova Gerusalemme o abbozzare l’architettura di un nuovo ordine mondiale. Ma sono convinto che la terapia ricercata da Washington e dalle capitali europee sarà migliore. Non offre soluzioni permanenti alle sfide della non-pace, ma offre la possibilità di evitare i suoi peggiori effetti collaterali. Somministrando subito la giusta terapia alla nostra politica, possiamo gettare le fondamenta per una grande ripartenza. E nel lungo periodo anche l’architettura potrebbe essere diversa.