Giorgia Meloni ama ripetere che la migrazione è un «problema europeo», traduzione piuttosto forzata della definizione di «european challenge» (sfida), riconosciuta in ambito comunitario, dalle lettere della presidente della Commissione Ursula von der Leyen alle conclusioni dell’ultimo Consiglio europeo. Sottile come questa discrepanza lessicale è anche la differenza tra le richieste dell’Italia all’Unione Europea e quello che l’Ue, e soprattutto gli Stati che la compongono, sembrano disposti a concedere.
«Rispettare Dublino»
Mentre il governo si riuniva a Cutro, a Bruxelles andava in scena il Consiglio dei ministri dell’Interno, in cui il sottosegretario di Stato leghista Nicola Molteni sostituiva il titolare del Viminale Matteo Piantedosi. Nessuna dichiarazione al termine dei lavori, ma una nota inviata ai giornalisti da cui trapela soddisfazione: «L’agenda europea sull’immigrazione diventa sempre più l’agenda italiana e le soluzioni europee hanno sempre più un abito italiano».
La convergenza su alcuni punti è innegabile: Commissione e Stati membri si stanno concentrando soprattutto sulla «dimensione esterna» del fenomeno migratorio, discutendo di come rinforzare i controlli alle frontiere, rendere più efficienti le procedure di rimpatrio e stringere e accordi con i Paesi d’origine e di transito delle rotte migratorie.
Anche perché sul versante «interno», quello della condivisione della responsabilità e della gestione delle persone migranti già arrivate in Europa, le frizioni non accennano a diminuire.
Non solo non si registrano sostanziali passi in avanti sulle parti cruciali del Pact on Migration, con la commissaria agli Affari interni Ylva Johansson sempre più monotona nel ripetere l’importanza di compiere «progressi significativi», ma un nutrito gruppo di Paesi manda pure un chiaro messaggio all’Italia: finché non vengono modificate, le regole attuali vanno rispettate.
Alla vigilia dell’incontro, infatti, sette Stati (Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi, Austria, Danimarca e Svizzera, che non appartiene all’Ue ma rientra nell’area Schengen) hanno firmato un comunicato congiunto, per esprimere la necessità di attenersi al regolamento di Dublino: le persone straniere che chiedono asilo nell’Ue possono farlo solamente nel Paese di primo ingresso, dove devono essere riportate se trovate in un altro.
È il tema dei cosiddetti «movimenti secondari», realizzati da coloro che pur arrivando negli Stati di frontiera dell’Unione riescono poi a oltrepassare i confini, sfuggendo ai controlli delle autorità nazionali. Quando una persona chiede asilo nell’Ue, infatti, non le è consentito muoversi negli altri Stati membri fino a che non ottiene la protezione.
Eppure lo fanno in tanti, come ha sottolineato anche la commissaria Johansson nella conferenza stampa successiva all’incontro: «Nell’ultimo anno abbiamo avuto 330mila attraversamenti irregolari delle frontiere e quasi un milione di richieste d’asilo. Questo indica chiaramente un alto livello di movimenti secondari». Anche secondo l’ultima analisi di Frontex sul tema, dal 2021 il fenomeno è tornato ai livelli precedenti alla pandemia e presenta un «alto rischio di aumento» nel 2023.
Le nazioni firmatarie della lettera non menzionano l’Italia né nessun altro Stato membro, ma il riferimento non può che essere ai Paesi di primo ingresso, rei di permettere che i richiedenti asilo attraversino le proprie frontiere con gli altri Stati dell’Ue e/o di rallentare le procedure per riammetterli: i cosiddetti «Dublin transfers», che appaiono nel testo.
E anche durante la discussione ministeriale il tema è stato affrontato. Al riguardo è stata molto chiara la ministra svedese per la Migrazione, Maria Malmer Stenergard: gli Stati si impegnano a procedere nella cosiddetta «roadmap di Dublino», il percorso verso la modifica delle regole che disciplinano la richiesta di asilo nell’Ue, ma intanto ne pretendono l’applicazione. «Abbiamo concluso che per creare la fiducia necessaria a proseguire è importante anche rispettare le norme attuali».
Nonostante l’impegno profuso dai Paesi, ha detto la ministra, ci vorrà qualche anno prima di concordare una nuova impalcatura della politica migratoria e nel frattempo «è fondamentale che il sistema funzioni bene».
Fortezza Europa, i prossimi passi
Per il resto, il Consiglio dei ministri dell’Interno si è svolto sulla falsariga degli ultimi incontri, a parte un breve momento di raccoglimento per la strage di Cutro.
La Commissaria Johansson ha annunciato la presentazione per la prossima settimana di una «Strategia integrata sul controllo delle frontiere» e di una raccomandazione per rendere più efficaci i rimpatri verso i Paesi d’origine, grazie al mutuo riconoscimento delle decisioni di rimpatrio tra gli Stati europei.
A facilitare la cooperazione, del resto, c’è già la nuova versione dello «Schengen information system», il sistema digitale di raccolta dati per l’area di libera circolazione europea. Ma gli Stati dell’Ue, secondo la commissaria, dovrebbero utilizzare di più i servizi offerti da Frontex in questo ambito, visto che solo pochi di loro (tra cui l’Ungheria) lo fanno.
Potrebbe esserci anche una stretta sui visti, dato che circa il venti per cento delle richieste d’asilo nell’Unione proviene da persone che raggiungono i Paesi membri proprio con un permesso temporaneo di viaggio.
Un «abuso del sistema», come lo ha definito la commissaria, a cui è necessario porre rimedio. «Penso sia giunto il momento di parlarne e sono pronta a lavorare su una possibile revisione del meccanismo di sospensione dei visti».
Intanto Ylva Johansson rivendica una recente diminuzione del quarantaquattro per cento degli ingressi irregolari sulla rotta balcanica, grazie a suo dire alla presenza degli agenti di Frontex. Prossimamente visiterà di persona il confine tra Serbia e Ungheria, dove spesso stampa e organizzazioni umanitarie hanno denunciato violenti respingimenti, in uno degli esempi più fulgidi di quella che i critici delle politiche migratorie dell’Unione chiamano «Fortezza Europa».