La perdita sembra definire il nostro presente, in particolar modo le perdite associate al clima e ad altre forme di cambiamento ambientale. Successi editoriali come “La sesta estinzione. Una storia innaturale” di Elizabeth Kolbert e “La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile” di Amitav Ghosh inquadrano il presente come un momento nella storia del mondo in cui le perdite catastrofiche superano la nostra capacità immaginativa. Non passa giorno senza che apprendiamo dell’estinzione di una qualche specie, o di una costa minacciata dall’innalzamento dei mari.
Nel 2018 il «New York Times Magazine» proponeva una storia intitolata “Perdere la Terra: i dieci anni in cui abbiamo quasi fermato il cambiamento climatico”. Nell’articolo Nathaniel Rich elencava le occasioni perdute di cambiare il corso della storia terrestre. Poiché non abbiamo agito, affermava, «il disastro naturale è adesso la sorte migliore cui possiamo aspirare».
Quando ho iniziato a scrivere questo libro, una crepa in Larsen c, una delle maggiori piattaforme glaciali della penisola Antartica, mi teneva sveglia la notte. I miei sogni erano turbati dai timori di un continente spezzato a metà. Pochi mesi dopo, i giorni e le notti diventarono veglie in attesa del peggio, mentre l’uragano Irma avanzava sui caldi mari caraibici in direzione della mia casa d’infanzia, nella Florida meridionale.
La perdita rende difficile mantenere le cose in prospettiva. La mia famiglia è sopravvissuta all’uragano Andrew, un ciclone tropicale di categoria 5 sulla Scala Saffir-Simpson che investì il sud della Florida nel 1992. Il suo occhio letale inquadrò casa nostra, un edificio storico costruito negli anni Venti con assi di pino locale e scandole di metallo. Il giorno dopo partii da Gainesville, dove studiavo, per raggiungere la cittadina ai confini del Parco Nazionale delle Everglades. All’arrivo trovai un paesaggio così modificato – palme, segnali stradali, edifici divelti – che per orientarmi dovetti chiedere una mano alla Guardia Nazionale. Nel diario composto in occasione della morte della madre, Roland Barthes descrive la perdita come un «paesaggio piatto, tetro – virtualmente privo d’acqua – e insignificante».
Di recente però la perdita non somiglia a un deserto, a un paesaggio arido e desolato, ma ha più l’aspetto di un pantano spugnoso fatto di panni bagnati e cartongesso fradicio. La perdita è un posto dove alberi, lavatrici e case delle bambole vengono spazzati dalle maree. È un modo di stare al mondo segnato da lutto, rabbia, paura e angoscia. La perdita ci trasforma, stravolge il modo in cui ci relazioniamo alle altre creature e alle cose, cambia le nostre speranze per il futuro. La perdita ha anche ripercussioni. Senza lo schermo protettivo di Larsen c i ghiacciai retrostanti cominceranno a sciogliersi e frantumarsi. Intere comunità, dallo Stretto di Bering al litorale della Louisiana, stanno già trasferendo le proprie dimore ancestrali in territori più elevati e sicuri. Non è trascorso tanto tempo da quando i residenti di Innaarsuit fuggirono di fronte all’avanzata di un iceberg da undici milioni di tonnellate che minacciava il loro villaggio costiero nella Groenlandia occidentale.
Quando queste comunità, legate come sono al territorio, fanno i bagagli e se ne vanno, non perdono solo case, scuole, negozi. Il mare strappa via anche il loro passato, i luoghi di culto e quelli in cui riposano i loro cari, umani e non. La perdita non è solo un fatto di assenza – di qualcosa o qualcuno che non c’è più. È un processo che continua, uno stato di allarme perpetuo, di rassegnazione. In questo stato ogni cosa sembra aver bisogno di essere rinforzata o riprogettata. Ovunque nel mondo le città hanno elaborato piani di sostenibilità basati su un futuro incerto. Oggi nel sud della Florida i flussi di marea trasformano le strade cittadine in fiumi di detriti urbani. L’auto di mia cognata si è rotta dopo essersi bloccata in un parcheggio allagato. La gente si lamenta che le assicurazioni sulla casa vengono stipulate di rado e sono comunque troppo costose.
La saggezza popolare contemporanea vanta massime quali: «Vendi finché sei in tempo» e «Si salvi chi può». La perdita è il filo conduttore del presente. Gran parte del dibattito sul cambiamento climatico e sul ritmo di estinzione delle specie ci presenta questi fenomeni come globali, e dunque distribuiti universalmente nello spazio e nel tempo. La Terra, un tempo lucente biglia azzurra, è come avvolta da una nube scura e minacciosa. Come osserva Anna Tsing, considerare la Terra e il nostro futuro uniformi è un’illusione della prospettiva, che ci fa «ignorare (non vedere) l’eterogeneità del mondo».
Al contrario, la perdita si esprime in linguaggi diversi e lascia spazio a silenzi profondi. Perdita e cambiamento nel sud della Florida non equivalgono a perdita e cambiamento nell’Artico. Sebbene tali differenze siano spesso appiattite dalla visione monoculare della modernità, la perdita parla il proprio vernacolo ed è legata al proprio tempo. La perdita è vissuta dai corpi che esistono in rapporto ad altre creature e cose, e può rompere o riconfigurare tali rapporti. Thom van Dooren ci ricorda che comprendere l’intera storia della perdita, come gli effetti ancora in corso dell’estinzione di certe specie, richiede «un’attenzione agli intrecci».
Ciò significa fare caso a come la perdita viene assimilata nei corpi dei soggetti storicamente costituiti, umani e non, e come satura le reti di rapporti che creano la vita. Questo genere di attenzione ai gerghi, alle influenze e alle incarnazioni della perdita implica per il futuro un’attenzione alle routine e ai rapporti di vita, morte e ricomponimento.
Da antropologa capisco che il tempo non è un fenomeno universale e che le perdite raramente sono distribuite in modo equo. Questo libro propone una narrazione del concetto di perdita in stretto legame con il tempo e il luogo – ciò che si può chiamare “un vernacolo della perdita”. Come tutti i luoghi del mondo, l’arcipelago fuegino è al contempo reale e immaginario. La versione immaginaria dominante, quella che io chiamo Fine del Mondo, si poggia da sempre sulle idee di sublime in natura e di popoli “perduti”. Oggi l’arcipelago (sia come luogo reale sia come luogo immaginario) è trasformato da altre preoccupazioni legate alla perdita. Ripetute fioriture di alghe hanno fatto chiudere allevamenti ittici, negando alle comunità costiere una delle poche fonti di sostentamento. L’industria estrattiva, tra cui la silvicoltura commerciale e la produzione di gas naturale, l’allevamento di salmoni e l’introduzione di nuove specie, stanno trasformando intere costellazioni di vita. I ghiacciai si ritirano. Si tratta di problemi reali, di portata devastante. Sono anche problemi legati alla storia del colonialismo, un aspetto della perdita ambientale che nella regione rimane perlopiù invisibile.
Da “Perdita e meraviglia alla fine del mondo” (Add editore), di Laura A. Ogden, p. 240, 18€