Alla canna del gasUn libro radicale sui vent’anni di putinismo politico-energetico dell’Italia

Non è un mistero che l’autocrate russo sia sempre piaciuto a molti dalle nostre parti, anche dopo il 24 febbraio 2022. Un grande abbaglio collettivo che va oltre il tradizionale equilibrismo diplomatico di Roma, raccontato da Igor Boni in “L’Italia e l’Europa alla canna del gas. Energia, armi, propaganda. Il ricatto di Putin e le risposte dei Radicali” (Reality Book)

AP/Lapresse

Anche senza contare i lacchè, come Matteo Salvini e i compari, come Silvio Berlusconi, Vladimir Putin in Italia è sempre piaciuto a (quasi) tutti. Anche dopo il 24 febbraio 2022 le schiere dei suoi estimatori si sono assottigliate e impermalosite per l’accusa di avere tenuto bordone per vent’anni a un delinquente, ma non si sono del tutto disperse, come dimostra il collateralismo tenace, sub specie pacifista, di larga parte del nostro sistema politico e mediatico.

In ogni caso, continua a mancare una spiegazione convincente di questo abbaglio collettivo e di questo amore, rumorosamente corrisposto, per il banditore dei malumori e delle frustrazioni della Russia post-imperiale. Perché? Perché in realtà il putinismo italiano non è stato affatto un abbaglio, ma un disegno: non un errore, ma una colpa.

Nessuno dei grandi sponsor e amici di Putin ha mai pensato che questi fosse davvero diverso da come si mostrava, ma tutti hanno ritenuto che l’Italia potesse trarre grandi vantaggi da un patto col diavolo del Cremlino, che la dipendenza energetica dalla Russia fosse in realtà una imperdibile occasione di business per le imprese pubbliche e parapubbliche intrecciate al sistema capitalistico-mafioso moscovita e che la compromissione politica con il regime putiniano fosse addirittura una garanzia di autonomia strategica, in un sistema internazionale apparentemente unipolare.

Dietro al putinismo italiano, insomma, c’era qualcosa di molto più mefistofelico della vecchia ostpolitik andreottiana e della storica condiscendenza farnesiniana verso la Russia: qualcosa di più sofisticato del tradizionale equilibrismo dell’Italia amica di tutti e nemica di nessuno, che aveva attraversato la Guerra Fredda senza fare, né ricevere affronti dai grandi della terra.

Dietro al putinismo italiano c’era l’idea di un’occasione di business parassitario, sia economico, sia politico, che avrebbe dovuto mettere l’Italia al riparo dalle responsabilità e dai rischi globali. C’era il miraggio di un “affarone”, che si è alla fine rivelato per quello che era: un ricatto strategico in cui le classi dirigenti italiane sono cadute per un misto di stupidità e superbia.

È questa, in grande sintesi, la tesi di libro di Igor Boni “L’Italia e l’Europa alla canna del gas. Energia, armi, propaganda. Il ricatto di Putin e le risposte dei Radicali” uscito a gennaio di quest’anno da Reality Book, con la prefazione di Anna Zafesova.

Boni è uno storico dirigente radicale (oggi presidente di Radicali italiani) e racconta in modo preciso, con date e nomi, i passaggi di questa discesa all’inferno. Putin con il gas a prezzo di saldo e le condizioni di favore offerte ai partner politicamente condiscendenti con la sua etica criminale è stato il modo in cui l’Italia ha evitato di fare i conti con l’assenza di una strategia energetica nazionale e, allo stesso tempo, il partner con cui le grandi aziende energetiche hanno pensato di ottenere vantaggi competitivi sul mercato globale. Pure gli ambientalisti hanno potuto prosperare al riparo delle forniture russe e fare le loro eroiche campagne contro le trivelle, il Tap e ogni iniziativa finalizzata a ridurre la dipendenza da Mosca, a sfruttare il gas e il petrolio nazionale e a diversificare le fonti di approvvigionamento. Quella Russia così “amica” sembrava una pacchia per tutti.

Dieci anni fa, nel 2013, l’Ad dell’Eni Paolo Scaroni – ricorda Boni nel suo libro – giustificava infatti così il rapporto con la Russia: «Non dobbiamo pensare al rapporto con Putin, ma alla situazione tra vent’anni. Abbiamo una lunga storia comune e la forza di gravità ci avvicina». Quale profezia avrebbe potuto essere più chiara e più sbagliata di questa?

Per quale ragione l’establishment italiano ha creduto che la strategia putiniana, che aveva propositi dichiarati e che conduceva le sue compagne criminali a volto scoperto, potesse avere esiti positivi per l’ordine internazionale e la stabilità europea e perfino riequilibrare i rapporti di forza con l’ingombrante alleato americano? Perché i nostri presunti realisti sono finiti vittima di un machiavellismo così ostinatamente cieco di fronte alla realtà? Perché i pochi – come i radicali – che a partire dalla guerra cecena dicevano a chiare lettere che i sogni di vendetta di uno Stato fallito non potevano che avere esiti nichilisti passarono per delle anime belle che giocavano a fare le Cassandre?

La risposta che Boni nel libro dà è la più semplice e la più impietosa. L’establishment italiano non ha mai creduto che, come recita una famosa e negletta formula pannelliana, dalla strage di diritto discenda indefettibilmente una strage di persone e di popoli e che il potere criminale non abbia limiti interni – magari nella prudenza e “saggezza” del tiranno – ma possa trovarne solo di esterni, tanto più drammatici e costosi, quanto più precipitosi e tardivi. Invece l’Italia che conta, quella che sa come va il mondo, quella che capisce il gioco del potere – con i modi curiali di Romano Prodi, quelli confidenziali di Berlusconi, quelli servili di Salvini e di Giuseppe Conte – pensava di potere addomesticare a proprio vantaggio il genio maligno uscito dalla lampada della Russia post-sovietica.

Troppe volte, in questi decenni, abbiamo sentito irridere gli allarmi sulla marcia di Putin verso ovest, prima nella forma della corruzione, poi dell’infiltrazione ideologica e infine dell’aggressione militare. Ancora più spesso abbiamo sentito ripetere che Putin non era un pazzo e non avrebbe fatto pazzie, malgrado la realtà si incarichi ogni volta di dimostrare il contrario, cioè che ogni potere criminale è folle e illimitato nella sua follia, proprio perché criminale.

Infatti, oggi, la spiegazione dell’impazzimento di Putin, da parte dei suoi vecchi e nuovi amici, è quella di una reazione irrazionale, ma comprensibile, a una serie di provocazioni subite: dall’Ue, dalla Nato, dagli Stati Uniti e da Volodymyr Zelensky, che avrebbe solo voluto sostituire, come dice il suo vecchio sodale di Arcore, con un governo di persone perbene.

L’Italia putiniana ha insomma conservato una spiccata attitudine alla menzogna, di cui il libro di Boni ha, se non altro, il merito di documentare i precedenti.

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