I «senza paura» hanno capito che l’epidemia li sta risparmiando. La morte gli scava il vuoto intorno, colpisce l’amico salutato il giorno prima, arriva addirittura in casa sua portandosi via i figli, eppure lui è vivo. Il perché si scoprirà tre secoli dopo: questi individui hanno già incontrato e sconfitto il nemico di cui il loro organismo serba memoria, le difese vittoriose ancora schierate distruggono il microbo della peste appena rimette piede nel corpo.
A volte la vittoria è arrivata senza neanche ammalarsi in modo evidente. Da una pulce o con un respiro gli sono arrivati pochi batteri, eliminati subito, prima che potessero moltiplicarsi in un numero sufficiente per rendere vincente l’invasione. Hanno avuto solo un po’ di febbre o qualche gonfiore passati inosservati. Quanto è bastato però ad attivare la memoria del nemico, come un vaccino. Se invece si sono accorti di aver avuto la peste perché la battaglia immunitaria e i sintomi sono stati intensi, sanno di essere dei sopravvissuti.
Ma, preceduta da una guarigione o meno, l’immunità non è un mistero, non vi è nulla da indagare, neanche per la medicina. La malattia, ma anche la salvezza, vengono da Dio, dagli astri o da uno squilibrio degli umori che di volta in volta decidono il destino dell’uomo. Non a caso, il termine immunitas, che darà il nome al sistema di difesa del corpo, sin dalla sua comparsa, indirizza l’attenzione sul soprannaturale, impedendo la ricerca della sua origine nel corpo.
Nel I secolo d.C. Marco Anneo Lucano usa il termine immunitas per indicare non solo l’esenzione da obblighi giudiziari, fiscali o militari ma anche chi sopravvive al veleno dei serpenti o altre malattie. L’estensione del significato si ritrova subito in altri scritti medici riferita anche alle epidemie. Ma, invece di una funzione naturale del corpo, viene interpretata come un carattere raro e particolare del soggetto. Un dono prezioso, che, come tale non può che essere di origine celeste. Gli immuni si avviano a diventare dei segnati da Dio, nel bene e nel male. […]
Dal 430 a.C., anno in cui si può fissare la data in cui è stato colto il primo e principale sospetto dell’esistenza del sistema immunitario, al 1883, quando lo si scopre, dando il via alla conquista della medicina che più benefici ha portato e porterà all’umanità, passano oltre due millenni. Per essere precisi 2313 anni, in cui non è stato determinante il progresso delle tecnologie per le indagini, come per esempio il microscopio, nel permettere il taglio del traguardo.
Atene perde la guerra contro Sparta perché la peste falcia cittadini, soldati, marinai, generali e lo stesso Pericle. Il termine «peste» per secoli ha indicato una epidemia qualsiasi, infatti quella del 430 a.C. di sicuro non è da Yersinia pestis. […]
La prima testimonianza scritta del ricorso al soprannaturale coincide con quella della medicina ed è in cuneiforme. Seimila i demoni che nella Mesopotamia del ii millennio a.C. deve conoscere un medico. Uno di questi è la causa dello shertu – che vuol dire sia malattia sia peccato –, del suo paziente. Poi prescrive la cura a base di preghiere ed esorcismi specifici. Il demone giusto lo «diagnostica» con la posizione degli astri, lo studio del volo degli uccelli e del fegato degli animali sacrificali. […]
Peste bubbonica è l’epidemia del 541, detta anche «peste di Giustiniano», dal nome dell’imperatore romano d’Oriente sotto il cui regno si scatenò. A differenza di tutti i precedenti, sul tipo di flagello non ci sono dubbi. […] Da Costantinopoli in due anni la peste raggiunge tutto il mondo allora conosciuto, come farà dal 1347. Verso oriente arriva all’Azerbaigian, a occidente all’Africa del Nord, i Balcani, l’Italia, la Spagna, la Gallia e la Britannia.
Secondo le stime attuali muoiono tra i 50 e i 100 milioni di persone, la metà della popolazione dell’impero, al ritmo anche di 5000 al giorno. Si vuotano città, campagne ed eserciti. Ne approfittano arabi, berberi, germani, ostrogoti e poi longobardi. Giustiniano li ricaccia oltre i confini dell’impero ma quei territori spopolati e con presidi militari insufficienti vengono presto rioccupati, sancendo la fine del tentativo di Giustiniano di ricostruire l’Impero romano. L’epidemia sembra esaurirsi nel 544, Giustiniano appena guarito dalla peste la dichiara finita. Invece il flagello si ripresenta ciclicamente per altri due secoli circa almeno.
Rispetto alla peste di Atene ora si hanno notizie più abbondanti e precise sui sintomi, sulla modalità e velocità del contagio e si distinguono forma bubbonica e polmonare. Si osserva, come scrisse Tucidide, che non colpisce due volte. Stavolta inoltre si descrive anche la ciclicità: l’epidemia ritorna, mai prima di sei anni, in genere tra i quindici e i vent’anni dopo. E si osserva che i guariti nel ciclo precedente continuano a essere risparmiati. Infine Evagrio Scolastico osserva anche: «Alcuni, scappati dalle città, si salvarono. Ma comunicarono il morbo a quelli che non ce l’avevano». È la prima descrizione del portatore sano. […]
I medici del tempo, però, sono attenti a ciò che è intorno al malato, ancora di più a ciò che sta sopra, nel cielo, ma poco o per niente a ciò che gli succede dentro. Quando non basta chiamare in causa Dio, per cercare un filo conduttore delle varie manifestazioni della malattia si studia il movimento degli astri o si elaborano complesse ed eleganti teorie, combinando elementi e forze della natura. Il sistema ippocratico e poi galenico per la medicina, come quello tolemaico per l’astronomia, sono tanto affascinanti quanto fasulli. E le cure che ne derivano, come le teorie da cui discendono, non vengono mai sottoposte a verifica.
Questo approccio dominerà la medicina per secoli. […] I medici e i farmaci schierati in prima linea contro la peste oggi appaiono tragici nella loro inutilità, se andava bene, e grotteschi per la complessa articolazione mai sottoposta a verifica. I medici, prima di uscire durante le epidemie, in genere indossavano una palandrana di tela di lino impermeabilizzata da pasta di cera e sostanze aromatiche.
Sul volto una maschera con un lungo naso dove spezie e profumi annullavano i cattivi odori e quindi i miasmi mortiferi. In bocca il medico teneva anche aglio e ruta, inseriva incenso nel naso e nelle orecchie; gli occhi erano protetti da occhiali. I farmaci erano ispirati sia al principio dei simili sia a quello degli opposti, «figli» della dottrina degli umori e dei loro riequilibri. Il veleno della peste si elimina con il veleno della vipera o dello scorpione, componenti base del teriaco. […]
L’efficacia di questi trattamenti farmacologici e chirurgici è certificata dalla loro coerenza con le teorie, in genere umorali. Qualcuno osservava che farmacisti, barbieri e medici muoiono come gli altri quando arrivano le pestilenze. Ma, come per i vermi del gesuita o il «non ritorno» del male, non gli bada nessuno. Né ci si mette a controllare l’efficacia, misurare i benefici di cure estrapolate dalle convincenti teorie in voga. Se lo si facesse, si scoprirebbe che queste «cure» uccidono più delle malattie che dovrebbero curare.
Da “La memoria del nemico” di Arnaldo D’Amico, Il Saggiatore, 324 pagine, 24 euro.