Chi ha avuto la fortuna di visitare il “Continente nero” (senza soggiornare nei lodge che servono ostriche, bollicine e risotto alla milanese e mettono a disposizione la pay-tv nel cuore della savana…) lo sa: l’Africa non si dimentica. E per combattere la nostalgia “da safari” c’è un rimedio primordiale, atavico, democratico ed efficace: andare in cerca anche in patria dei sapori, dei colori e delle atmosfere che caratterizzano la terra più antica del mondo. Per fortuna, ormai, anche nella metropoli milanese si moltiplicano gli angoli in cui sentirsi più vicini all’Equatore. Dunque niente passaporto: per tornare nella culla dell’umanità (e della cucina) basta il menu.
Marcel Boum: il “Mario Rossi africano” e la sua cucina inclusiva
Prima tappa: Milano Design District. Qui dallo scorso giugno si trova un luogo d’incontro, pensato per far conoscere la cultura gastronomica (e non solo) africana più contemporanea ai milanesi curiosi, ma soprattutto per far sentire tutti «Parte dello stesso mondo», a partire dal nome sull’insegna. Marcel Boum è infatti il corrispondente africano del pirandelliano Vitangelo Moscarda (protagonista del romanzo “Uno, nessuno, centomila”), un “Mario Rossi” qualunque, senza identità definita, in cui ognuno può riconoscersi (o perdersi) ma anche la tabula rasa da cui ripartire per costruirsi un’identità nuova.
Dunque quello del civico 13 di Via Savona è più di un locale che serve street food: è un progetto di inclusione sociale voluto dai founder Gaia Trussardi (collaboratrice della Croce Rossa Italiana di Bresso molto attiva sul tema dell’integrazione) e Cesare Battisti (chef milanese del ristorante Ratanà a cui è stata affidata la costruzione del menu) per dare ai giovani richiedenti asilo provenienti da diversi Paesi dell’Africa gli strumenti per costruirsi una nuova vita (ma senza dover rinunciare alle proprie radici) a contatto con una nuova comunità.
La cucina diventa così uno strumento di professionalizzazione, d’indipendenza economica, ma soprattutto di dialogo con il prossimo. Basta oltrepassare la vetrina con gli infissi gialli per ritrovarsi in un luogo che ha voglia di raccontarsi ma anche di accogliere, attraverso la sua atmosfera informale ma ricca di rimandi e significati: dagli arredi moderni in materiali naturali, con colori che ricordano la terra e il sole, ai simboli e ai proverbi africani che campeggiano sulle pareti, insieme a un’infinità di volti. Chi sono? Sono tutti auto-ritratti realizzati dal Laboratorio Tantemani nell’ambito del workshop “Innumerevoli”, «Un progetto di auto-narrazione nato per favorire l’esplorazione e la comunicazione di sé attraverso il disegno, linguaggio meno sorvegliato e quindi più libero di quello verbale».
Anche la cucina è utilizzata con lo stesso fine espressivo, che si manifesta attraverso un menu di pochi piatti, provenienti da diverse nazioni dell’Africa (Mozambico, Zambia, Ghana, Tanzania e Senegal), autentici per quanto riguarda tecniche di preparazione e predilezione per l’elemento vegetale, ma “ingentiliti” per risultare accessibili a un pubblico che si approccia per la prima volta a questi gusti e invogliarlo ad approfondirne la conoscenza e la storia. Insomma, la condivisione del cibo diventa il pretesto per avviare uno scambio, di culture e di visioni, il mezzo per veicolare messaggi universali (non ultimo quello dell’impegno etico verso la sostenibilità ambientale) in cui riconoscersi e su cui costruire nuove forme di multiculturalità. Perché, come suggerisce la saggezza africana, «Se si sogna da soli, è solo un sogno. Se si sogna insieme, è la realtà che comincia».
Città imperiali… fascino esotico tra sogno e realtà
Un’altra opzione, se si vuole avvicinarsi alla realtà culinaria africana a piccoli passi, è quella di iniziare dalla cucina marocchina, che tra quelle provenienti dal continente africano è considerata la più “europea”. Tra influenze berbere, moresche e arabe ed eredità coloniale francese, la cucina marocchina mixa sapori intensi (come quello della carne d’agnello o montone) con altri più delicati (coniglio, pollo e pesce del Mediterraneo), il profumo degli agrumi con quello delle spezie (cannella, cumino, zafferano, curcuma, zenzero) e dell’olio d’oliva. Il tutto reso più affascinante da metodi di cottura millenari come il tajine, un piatto che prende il nome dall’omonimo contenitore conico di terracotta, che consente la cottura lenta di verdure, spezie e carne (che grazie alla condensa che si crea all’interno del recipiente risulta morbidissima) i cui sapori si amalgamano in un unicum delizioso che va a condire il tradizionale cous cous (un piatto che a seguito della dominazione araba è divenuto tradizionale anche in Sicilia, soprattutto nel trapanese). A Milano sono diversi i locali (El Jadida, Riad Marrakech e Riad Yacout per citarne alcuni) che hanno fatto di questa vicinanza di gusto tra Maghreb e Vecchio Continente la loro cifra stilistica, talvolta sfruttandola in maniera un po’ “ruffiana”, rivisitando la loro cucina in chiave “fusion”, senza rinunciare al fascino dell’happy hour, né rifiutare contaminazioni gastronomiche provenienti dalle aree del mondo più lontane (tra gamberi di Mazara del Vallo, culatello di Zibello Dop, pasta Senatore Cappelli, tomahawk irlandese, beef di Angus argentino, sushi, tataki di tonno, wasabi e frutta esotica). Il tutto incorniciato da location eleganti, scenografiche, un po’ teatrali, in cui alcuni elementi caratteristici della tradizione nordafricana (damaschi, tende e kilim, intarsi e affreschi, cuscini e narghilè, tè alla menta marocchino e danza del ventre) sono esibiti al punto da ridursi a mero spettacolo per “turisti domestici” in cerca delle Mille e una notte.
Per chi davvero vuole lasciarsi avvolgere dall’atmosfera del Maghreb c’è Maison Touareg, il primo “bistrot marocchino” nella periferia del capoluogo lombardo, un localino senza troppi fronzoli, aperto da poco, ma ricco di storia in cui il cibo viene cucinato su un fornello da campo dal capo-famiglia con l’aiuto della moglie (tre figli piccoli permettendo) e di qualche ragazzo assunto da poco. Tra i piatti da provare c’è il tajine barcock con carne di vitello, prugne, mandorle tostate, cannella e zafferano che sa di autenticità maghrebina, così come l’agnello m’rozia in salsa dolce con miele, mandorle e uvetta, la crema di melanzana affumicata, le frittelle di patate allo zenzero, curcuma e cannella e il tiramisù al tè alla menta con crumble di cannella e mandorle tostate. Il tutto da accompagnare con il vin gris (vino grigio), specialità marocchina che prevede la macerazione del vino con le bucce d’uva. L’ideale per sentirsi trasportati in una vecchia casa nella medina di Fez.
Eredità dall’Eritrea… con mani e cuore
Per chi è in cerca di esperienze culinarie più “nette” e “senza sconti” ed è disposto lasciare a casa l’ingessatura del galateo europeo, la destinazione è senza dubbio l’Eritrea, una nazione ancora poco rappresentata nel panorama della ristorazione italiana, ma di cui non mancano alcuni portavoce meneghini d’eccellenza.
Da quasi trent’anni, in zona di Porta Venezia, il quartiere prediletto della comunità africana a Milano, sorge Warsà, il ristorante della signora Keby, dove basta varcare la soglia per essere catapultati nel Corno d’Africa. Le pareti di mattoni a vista, i tendaggi e i tappeti colorati, gli arredi etnici con tavolini bassi e sedute in legno intarsiato e le tipiche maschere decorative, costituiscono l’impalcatura per un’atmosfera esotica che si crea soprattutto grazie ai profumi delle spezie, al calore dell’accoglienza e alla modalità stessa con cui si svolge il pasto (un inno alla convivialità). Protagonista indiscusso del menu è lo zighinì, uno spezzatino dai sapori decisi (di carne, di pesce o vegetariano) che viene servito in grandi piatti unici da condividere, insieme all’injera, il caratteristico pane africano, sottile e spugnoso, dal sapore leggermente acidulo, che viene utilizzato al posto delle posate. Ebbene sì: si mangia con le mani. E questo rende l’esperienza davvero completa, perché capace di stimolare tutti i sensi e di riattivare modalità di apprendimento infantili ormai dimenticate (tutti tra gli 1-3 anni attraversano la fase in cui ogni cosa merita di essere “assaggiata”!). Non mancano altri bocconi altrettanto autentici, come i samosa (croccanti fagottini fritti), da accompagnare con birra etiope o con il mies, un vino aromatizzato con miele e frutta. Si termina con l’halawa, il tipico dolce al sesamo da accompagnare al tè alla cannella.
In eritreo “warsà” significa “eredità”, e chef Biniam, figlio della proprietaria, ha scelto di esprimerla in un locale tutto suo, aprendo nel 2015 Savana, il ristorante di via Luigi Canonica 45 (a pochi passi dalla Chinatown milanese) che offre ai suoi ospiti la possibilità di immergersi nella tradizione culinaria dell’Eritrea più autentica, per vivere un’esperienza di convivialità unica. Il format resta lo stesso della “casa madre”, ma un valore aggiunto è dato dalle pareti dipinte a mano da Simon Haile, famoso artista eritreo che vive in Germania, nonché dal tocco light che lo chef è riuscito a dare alla cucina autentica della sua terra. Perché, in fondo… siamo pur sempre nella “città della moda”!
Fra Senegal e Guinea… Africa equatoriale andata e ritorno
Meta coloniale di portoghesi e francesi, Senegal e Guinea risentono ancora oggi di influssi culturali variegati che si riflettono nella loro cucina (anche quella d’importazione in Italia). Ne è un esempio la cucina del Balafon, un ristorantino dall’atmosfera familiare situato in zona Lambrate, che da vent’anni offre una selezione di ricette semplici (dalle polpettine di fagioli ai samosa, fino ai piatti unici a base di carne o pesce in umido accompagnati da cous cous o riso, sughi e verdure), che non rimandano a una specificità geografica definita ma si rifanno ai gusti di Mali, Congo, Senegal ed Eritrea. Nel menu, concepito dalla padrona di casa, la signora Awa, e realizzato da suo figlio, chef Thora, i piatti sono accostati l’uno all’altro come i pezzi di legno che compongono lo strumento musicale di cui il ristorante porta il nome: il balafon, una sorta di xilofono originario dell’Africa Occidentale sub-sahariana, composto da una struttura di base in fasce di legno in cui vengono posizionate delle calebasse (zucche) che fungono da cassa di risonanza e che si suona con due mazze imbottite.
Per intraprendere un vero e proprio viaggio culturale nella cucina senegalese ci sono anche il Demm Dikk (sempre in zona Lambrate), il cui nome stesso, in lingua wolof (lingua più diffusa in Senegal) significa “andata e ritorno” e fa riferimento all’incontro tra la cucina dell’Africa Nera e il gusto italiano, e il Dibi 221 che propone piatti della tradizione senegalese autentica, come il thiebou dieune (dal 2021 riconosciuto come parte del patrimonio culturale Unesco), a base di riso e pesce, spesso preparati con manioca o pomodoro; il maffè, uno spezzatino con sugo di arachidi, il dibi, a base di agnello e cipolle marinati, speziati e insaporiti con una salsa piccante a base di senape.
A spasso tra altri Stati assolati e menu miscellanei
Poco rappresentati nel panorama gastronomico italiano, Nigeria, Somalia, Ghana, Gambia, Angola, Tanzania e Sudafrica avrebbero tutte le carte in regola per conquistare i palati occidentali con la loro cucina. Tutte offrono una cucina semplice, fatta di pochi ingredienti riuniti in piatti unici abbondanti e ricchi di spezie (curcuma, cumino, zenzero, peperoncino, chiodi di garofano, cardamomo, cannella, curry, e menta), quali le zuppe, spesso a base di patate, e la carne stufata con verdure, servita con riso, igname e altre fonti di carboidrati come l’eba, il fufu e l’iyan e spesso accompagnata da salsa piccante o agrodolce. Per assaggiare queste prelibatezza a Milano c’è Baobab, un ristorante piccolo e raccolto, dal menu multietnico che accoglie prestiti dal Senegal al Vietnam, e Sambuus, l’unico ristorante somalo a Milano che prende il nome dal sambuus (variante somala della samosa asiatica), uno spuntino triangolare a base di carne macinata speziata (o tonno o verdure), servito con salsa al peperoncino (shidni) e proposto come antipasto in alternativa al bajiyo, polpette vegane leggermente speziate servite con salsa piccante o agrodolce. Il menu prosegue con una buona offerta di piatti unici, con o senza carne, ma tutti speziati e serviti sull’anjeera (canjeero o pane somalo).
La proposta della cucina africana potrebbe proseguire con moltissimi altri piatti provenienti da diverse latitudini: la karantika è l’analogo algerino della nostra farinata (o cecina), rispetto alla quale prevede però l’aggiunta di uova e una finitura di cumino in polvere e, talvolta harissa, una salsa a base di peperoncino e aglio; il kelewele è uno street food tipico del Ghana ideale come snack o per l’aperitivo, a base di platano tagliato a rondelle o a bastoncini, fritto e aromatizzato con un mix di spezie (come pepe e zenzero fresco grattugiato, chiodi di garofano o cannella).
Passando ai main course non si può non citare il pollo congolese, un secondo piatto (o piatto unico) ricco e saporito, in cui la carne stufata è esaltata dalle spezie e accompagnata da pomodori e peperoni, con l’aggiunta di riso basmati o cous cous. Tra le sue varianti ci sono il riso jollof, piatto unico a base di riso africano a chicco lungo, spezzatino di pollo (ma anche pesce o manzo), verdure (cavolfiore, piselli, carote, fagiolini o fave) e diverse spezie (cumino, curcuma, peperoncino, zenzero e coriandolo) e il calulu, uno stufato di pesce fresco e secco tipico della cucina angolana (ma probabilmente di origine brasiliane) servito con verdure (melanzane, foglie di jimboa e okra) e accompagnato con il funje (una sorta di polenta a base di farina di mais o di tapioca). Spostandosi tra la Tanzania e l’isola di Zanzibar si incontra il boku boku, uno spezzatino cotto due volte: una prima in acqua e spezie, e una seconda in un intingolo composto dal fondo di cottura mescolato con frumento integrale, cumino, peperoncino, zenzero e cipolla, più l’eventuale aggiunta di pomodori per dare colore al piatto. In Sudafrica si incontra invece il bobotie, un piatto dalle antiche origini indonesiane in cui la carne di manzo, rosolata con qualche cipolla e insaporita con un cucchiaio di curry (e talvolta anche cardamomo, chiodi di garofano, peperoncino, aglio, zenzero, scorza e succo di limone, oppure chutney di mango, banane a fette e frutta secca), viene cotta in forno insieme a pane raffermo, uova, confettura di albicocche e uvetta, e accompagnata con riso basmati cotto al dente.
Per concludere in dolcezza ci sono la cocada amarela, un budino tradizionale dell’Angola (probabilmente eredità della dominazione portoghese) a base di cocco fresco grattugiato, tuorli d’uovo e cannella, che si prepara con una cottura lenta e dolce; l’arroz doce e il caakiri, entrambi di influenza europea, molto simili a un pudding; le koeksisters, frittelle sudafricane morbide all’interno e croccanti all’esterno, a forma a treccia e aromatizzate alla cannella; il melkert, dolce anch’esso sudafricano, simile a una crostata, con base di frolla farcita con crema di latte, burro e uova, aromatizzata con cannella in polvere e zucchero di canna.
Purtroppo reperirli in Italia è ancora piuttosto difficile, perciò le alternative sono prepararli a casa oppure rinnovare il passaporto. In ogni caso, sperimentare ciò che a Milano giù c’è può essere un punto d’inizio sia per aprirsi a un panorama di gusti “estranei” sia per incoraggiare l’ampliamento dell’offerta gastronomica africana in Italia. In fondo resta valido il proverbio africano: «Ciò che non hai mai visto lo trovi dove non sei mai stato», che si tratti di un Paese o di un nuovo ristorante appena aperto in città.