Per la Corte dei conti, nel 2022 l’Italia ha speso solo il 6% dei fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Considerato che anche quest’anno rimarremo indietro di quasi 15 miliardi, per spendere i 191 complessivi del piano entro il 2026 – calcolano i magistrati contabili nella loro relazione – saremo obbligati a concentrare una parte importante delle risorse tra il 2024 e il 2025: oltre 45 miliardi l’anno. Un’impresa non semplice, come ammette lo stesso ministro al Pnrr Raffaele Fitto: «Se noi oggi capiamo che alcuni interventi da qui al 30 giugno 2026 non possono essere realizzati, ed è matematico, è scientifico che sia così, dobbiamo dirlo con chiarezza e non aspettare il 2025 per aprire il dibattito su di chi sia la colpa».
Parole che suonano come una resa del governo italiano davanti ai ritardi cronici del nostro Pnrr. Fitto ieri ha chiamato a raccolta i ministri che detengono i capitoli di spesa più pesanti del piano, chiedendo di «fornire in tempi rapidi un’analisi netta e chiara delle criticità relative ai progetti di competenza. Non serve una radiografia, ma una risonanza magnetica dello stato di avanzamento dei lavori, da qui alla scadenza del Piano nel 2026». Il ministro ha chiesto anche ai colleghi di «evidenziare chiaramente i punti critici, spiegarne le ragioni e individuare soluzioni percorribili».
Una chiamata alle responsabilità, necessaria per «provare a rinegoziare gli obiettivi con l’Europa». I timori non riguardano solo l’ultimatum lanciato l’altro dalla Commissione, con tanto di proroga di un mese per verificare il raggiungimento dei target del terzo trimestre. La paura si concentra anche sulla quarta tranche, quella che scade a giugno 2023 e vale 16 miliardi.
La Commissione europea ha ritardato di un altro mese l’erogazione di 19,5 miliardi di euro del Pnrr, che sarebbero dovuti arrivare entro il 31 marzo, per problemi legati all’ammissibilità di alcuni investimenti, ma chiede anche che il governo presenti entro 30 giorni tutte le modifiche del piano che ritiene necessarie.
Fra le altre cose, Bruxelles ha preso di mira il finanziamento per la costruzione di due nuovi stadi, a Firenze e Venezia. A entrambi mancherebbero due requisiti essenziali per le opere finanziabili dal Pnrr: la finalità sociale e (nel caso di Venezia) la collocazione in aree urbane.
La preoccupazione ha superato il livello di guardia, scrive La Stampa. Il commissario Ue all’Economia Paolo Gentiloni lo avrebbe detto apertamente al presidente della Repubblica Sergio Mattarella in una telefonata di qualche giorno fa.
I nodi stanno venendo al pettine tutti insieme. Da un lato c’è il modo un po’ raffazzonato con cui il governo Meloni ha completato i 55 impegni dello scorso semestre. Fin qui, si tratta di problemi minori. Le persone interpellate a Bruxelles fanno sapere che si tratta di «rilievi tecnici assolutamente superabili». Ciò che preoccupa la Commissione è l’orizzonte. I numeri della Corte dei Conti sui fondi spesi fin qui sono deprimenti. Numeri che confermano la difficoltà tutta italiana nel riuscire a spendere i soldi che l’Europa ci concede generosamente da molti anni. Ma proprio per questo, fin dai primi passi del governo Meloni il commissario italiano aveva messo in guardia dalla tentazione di cambiare troppo.
È andata diversamente. Meloni e Fitto, pur fra lo scetticismo del ministro del Tesoro Giancarlo Giorgetti, hanno deciso una modifica di tutta la struttura di gestione del Piano, accentrando i poteri a Palazzo Chigi. Allo stesso tempo, nel tentativo di salvare i fondi salvabili, Fitto ha iniziato a negoziare con Bruxelles una modifica delle opere da finanziare. L’idea – alla quale in linea di principio la Commissione non è contraria – è quella di spostare alcuni progetti fin qui della lista del Pnrr (che scade nel 2026) nei capitoli dei fondi ordinari di coesione, ai quali l’Italia può attingere fino al 2029. E qui sta nascendo un’ulteriore complicazione: la nuova governance del Piano è troppo accentrata per progetti destinati alle Regioni del Sud, dal cui parere non si può prescindere. La Commissione ha fatto sapere al governo di attendere una proposta di modifica entro la fine di aprile, insieme a quella relativa a un altro pezzo del piano, ovvero la distribuzione di alcune risorse aggiuntive per progetti sulle energie rinnovabili. Ma ogni modifica al Piano deve passare da un voto della Commissione e del Consiglio. E ci vuole tempo. Con i ritardi che si accumulano.