Lo scorso giovedì la Commissione europea ha approvato un nuovo quadro temporaneo di crisi e di transizione per gli aiuti di Stato. Lo ha annunciato l’esecutivo europeo presentando il suo “A Green Deal Industrial Plan for the Net-Zero Age”. Le nuove misure estendono il sostegno pubblico in settori chiave per l’industria a zero emissioni fino alla fine del 2025 e prevedono due novità significative rispetto al passato: la prima, pericolosa per la tenuta del mercato interno, riguarda la possibilità per i governi di finanziare, non più solo investimenti, ma la produzione di tecnologie industriali per la riduzione delle emissioni come batterie, pannelli solari, pompe di calore e turbine eoliche.
La seconda prevede che gli importi degli aiuti di Stato possono essere pari a quelli offerti da Paesi terzi, riferimento non casuale agli Stati Uniti e al programma Ira (Inflation Reduction Act), per contrastare la delocalizzazione delle imprese europee oltreoceano. Questa misura, obbliga le aziende beneficiarie di aiuti di Stato a mantenere non solo la loro produzione nell’Unione europea ma anche a rimanere nello Stato in cui hanno ottenuto finanziamenti.
L’adozione del nuovo quadro per gli aiuti è arrivato alla vigilia dell’incontro tra la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, lungo il quale i due hanno trovato un accordo iniziale per evitare la competizione frontale e trovare un terreno comune per la collaborazione industriale nei settori strategici per la transizione.
In un tempo in cui i sussidi pubblici hanno sostituito la concorrenza del libero mercato e le spinte protezioniste sembrano comprimere la globalizzazione a regionalismo, Stati Uniti e Unione europea provano a ristabilire basi minime per evitare ostilità commerciali e riaprire prospettive di libero scambio, scoraggiate dalle resistenze populiste europee e poi seppellite definitivamente da Donald Trump ai tempi del Ttip.
Nella nota congiunta emanata a seguito dell’incontro, Washington e Bruxelles hanno annunciato di voler avviare immediatamente i negoziati per un accordo sui minerali critici e consentire così alle aziende europee di beneficiare del credito d’imposta per le materie prime critiche estratte o lavorate negli Stati membri e utilizzate per la produzione di veicoli puliti coperti dell’Inflation Reduction Act. A questo capitolo della cooperazione transatlantica si aggiunge anche la reciproca volontà di agire per contrastare le dipendenze strategiche da paesi ostili come la Cina e l’impegno a raggiungere un risultato ambizioso nei negoziati per l’Accordo globale sull’acciaio e l’alluminio sostenibili entro ottobre 2023.
Le transizioni ambientali e digitali in cui l’Unione si è imbattuta precipitosamente necessitano un quadro internazionale di cooperazione, di buone relazioni internazionali e commerciali che garantiscano a loro volta sicurezza nella catena di approvvigionamento, apertura dei mercati e libertà di movimento.
In tempi di guerra, crisi energetica e scontro tra Stati Uniti e Cina, l’Unione europea lavora per assicurarsi queste condizioni con più partner possibili sapendo che la relazione con Washington deve avere una corsia preferenziale. Tuttavia, al netto delle relazioni commerciali, l’Unione deve correggere il tiro per far quadrare gli obiettivi ambientali del Green Deal con la politica industriale e trovare un accordo tra Parlamento e Consiglio per adottare provvedimenti legislativi che scaturiranno dalla comunicazione “A Green Deal Industrial Plan for the Net-Zero Age”.
Nelle scorse settimane, mentre la stampa italiana era affaccendata a scrivere di Cospito, del Bonus 110 e del post Sanremo, il Parlamento europeo di Strasburgo negoziava la sua posizione in risposta alla proposta della Commissione e al tempo stesso vedeva consumarsi il tentativo di Manfred Weber, capo gruppo dei Popolari europei, di minare la leadership della presidente von der Leyen. Il colpo di mano del leader popolare è stato fermato dai liberali di Renew Europe capaci di arrivare ad un testo congiunto con Verdi e Socialisti. La stampa italiana ha trascurato questo passaggio parlamentare, denso di significato sia per il futuro della politica industriale europea sia per i giochi di forza che determineranno la leadership dell’Unione europea nel 2024.
Andiamo per ordine: il primo febbraio la presidente von der Leyen ha presentato la nuova comunicazione che di fatto è la risposta europea ai massicci piani di investimento pubblici delle grandi potenze industriali volte a finanziare tecnologie per la transizione verde. L’ultimo, in ordine di tempo, è il piano statunitense Inflation Reduction Act del 2022, che stanzia oltre trecentosessanta miliardi di dollari fino al 2032, con programmi e incentivi alle industrie statunitensi e non che decidono di produrre negli Stati Uniti, accelerando la transizione verso un’economia basata sull’energia pulita.
La comunicazione della Commissione europea è stata criticata da molti perché di fatto è una lista dei desideri, troppo vaga su temi centrali come la creazione di un nuovo fondo per la sovranità europea e le politiche per la formazione professionale, da realizzare non si sa bene quando e soprattutto come. L’unica misura chiara riguarda gli aiuti di stato.
Questo approccio sugli aiuti di Stato non è nuovo ma è piuttosto la reiterazione in forma strutturata delle deroghe avvenute durante la pandemia, e in ultimo lo scorso anno a seguito della guerra in Ucraina.
Per rendere più chiara l’ampiezza delle divergenze esistenti è sufficiente considerare che nel 2022, la Commissione europea ha autorizzato seicentosettantadue miliardi di aiuti di Stato in deroga alle regole generali. Di questi, trecentocinquatasette miliardi sono stati stanziati dalla Germania e centosessantuno dalla Francia.
Limitare la politica industriale agli aiuti di Stato è pericolosissimo per il rischio concreto di disintegrazione del mercato interno, un mercato che è il pilastro dell’Unione europea sebbene sia tutt’ora incompiuto.
Un altro punto che vale la pena sottolineare è il metodo con cui la Commissione europea, sin dall’adozione del Green Deal, ha disegnato la politica ambientale. Solo adesso, a quattro anni dalla prima presentazione del Green Deal europeo che stabilì gli obiettivi della neutralità climatica da raggiungere entro il 2050 e il taglio del cinquantacinque per cento di emissioni nette di gas serra entro il 2030, la Commissione inizia a prendere parzialmente coscienza della necessità di sostenere la transizione ambientale con adeguati strumenti economici.
Lo stesso Next Generation EU che ha stanziato circa duecentocinquanta miliardi per la transizione verde lascia nelle mani degli Stati membri un ampio margine di scelta degli investimenti e della spesa dal momento che, mancando un’analisi d’impatto delle politiche ambientali su ciascuno Stato membro, su specifici cluster industriali e sull’Unione tutta, non ha ad oggi una lista di priorità su cui dirigere gli investimenti con l’obiettivo ultimo di fare sì politica industriale raggiungendo i target ambientali, ma soprattutto per creare campioni industriali capaci di commercializzare le tecnologie e i prodotti più innovativi dal punto di vista ambientale raggiungendo quella trasformazione che spinge la crescita economica dell’Unione e la sua competitività su scala globale.
Il testo approvato dal Parlamento ha tracciato invece le linee essenziali per rafforzare il mercato interno, l’occupazione, la formazione professionale, gli investimenti europei nel solco del Next Generation Eu reiterando l’obiettivo di un cambio di passo sulla governance economica europea. Politicamente, ne esce sconfitto e diviso il Partito popolare europeo con il suo leader Mandred Weber convinto di poter indebolire l’attuale Commissione per costruire sin d’ora un’alleanza tra popolari e Conservatori europei, il gruppo cui appartiene Giorgia Meloni, in vista del 2024: alleanza che invece di decollare rischia di schiantarsi prima del fischio di inizio.
Al di là dei giochi di forza tra i gruppi politici, vale la pena ricordare l’inconcludenza e la superficialità di una destra conservatrice e strillona come quella italiana, incline a minacciare grandi cambiamenti e fine della pacchia ma, nei fatti, irrilevante e incapace di portare a casa un straccio di risultato in un momento delicatissimo per l’economia del nostro Paese.