L’anti GiorgiaMeloni evita lo scontro con Schlein per non legittimarla come sua nemesi politica

La presidente del Consiglio non cerca ancora lo scontro con la segretaria del Partito democratico. Si complimenta per la vittoria e subdolamente rivendica per sé il ruolo di underdog della politica. Ma la leader dem deve rilanciare il partito su un solco radicale e continuerà ad attaccare il Governo

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Questo 8 marzo del 2023 sarà sicuramente ricordato nella storia italiana – piacciano o meno le protagoniste – per il fatto di avere per la prima volta al vertice del governo una donna. E che sia di destra è ancora più eclatante. A Giorgia Meloni si è aggiunta la sorpresa Elly Schlein, che si è imposta alla leadership del Partito Democratico con le primarie, con il voto libero di mezzo milione di elettori e simpatizzanti della diaspora progressista.

È cambiato il mondo? Vuol dire che finalmente le donne in Italia hanno ottenuto il loro giusto riconoscimento della parità, quantomeno in un mondo, quello della politica, tendenzialmente maschile, se non maschilista? Ovvio che no, però la novità è grande, è oggettiva. 

Ognuno inoltre è libero di riconoscersi nel modello di donna o nell’altro, così diametralmente diversi nella vita, diversi culturalmente, prima ancora che politicamente. Elly è una donna di sinistra radicale, che ama un’altra donna, sostenitrice del gender fluid. Giorgia è una canonica eterosessuale: si vanta di essere madre e cattolica, considera il genere maschile e femminile un «dato incontrovertibile» radicato nei corpi  («Le donne sono le prime vittime dell’ideologia gender»), non crede alle politiche femminili o per le donne, alla riserva delle quote panda, come sottolinea nell’intervista rilasciata alla direttrice di Grazia, Silvia Grilli.  

La presidente del Consiglio non parla di Schlein (l’intervista è stata fatta prima del risultato delle primarie) e non l’ha citata neanche ieri alla cerimonia per il nuovo allestimento della Sala delle Donne a Montecitorio. Eppure era l’occasione per ricordare che un’altra donna si è fatta largo e imposta tra gli uomini. Avrebbe avuto un senso di riconoscimento dell’avversaria proprio in quella sala voluta nel 2016 dall’allora presidente della Camera Laura Boldrini per rendere merito alle donne della Repubblica (nei corridoi del palazzo ci sono solo busti di uomini). Nel nuovo allestimento è stata aggiunta anche la foto di Meloni, che non ha citato espressamente Schlein ma è stata più velenosa. 

Giorgia si è appropriata delle parole di Elly – «non ci hanno visto arrivare» – raccontando la sua biografia di donna che ha dovuto faticare il doppio degli uomini per arrivare al potere. Anzi il triplo perché donna e di destra. Non ha aggiunto della Garbatella per tenere un livello. Ha sempre scommesso sul suo fallimento, qualsiasi cosa abbia fatto nella vita. «C’era il fatto che io sono una donna? Probabilmente sì. Lo racconto per dire che c’è una buona notizia. Alle donne di questa nazione voglio dire che il fatto di essere sottovalutate è un grande vantaggio, perché spesso non ti vedono arrivare». 

Meloni ripete la stessa espressione che ha usato la nuova segretaria del Pd quando è stata incoronata («ancora una volta non ci hanno visto arrivare»). Ma la Schlein l’ha usata non in quanto donna, almeno non come un fatto di genere, bensì come l’outsider che vince contro ogni previsione. Non è un’espressione originale: è presa dal titolo di un libro femminista della storica americana Lisa Levenstein, “They didn’t see us coming”. Ora la usa pure Meloni, ma le sue parole non hanno nulla dell’afflato femminista. È una sfida a distanza.

La politica ha delle regole ferree che possono avere solo sfumature se giocate da un uomo o da una donna. E la presidente del Consiglio queste regole le conosce perfettamente. Allora, quando dice che non hanno visto arrivare la vera underdog femmina, il suo non è un touché di fioretto ma una colpo di scimitarra. 

Premessa. Nelle stesse ore Schlein si preparava ad attaccare a testa bassa il governo sulla tragedia degli immigrati a Cutro. Prima Giuseppe Provenzano, che in aula è arrivato ad accusare il governo di strage di Stato, ricordando la stessa accusa lanciata nel 2015 da Meloni contro l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi dopo il naufragio a largo di Lampedusa. Poi è stata la volta della leader dei Democratici nel transatlantico del Senato: ha messo da parte il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e la sua relazione sui fatti calabresi, e ha chiamo sul banco degli imputati i pezzi grossi, Matteo Salvini ma soprattutto Meloni. Per Schlein la responsabilità politica di non aver salvato gli oltre 70 migranti e bambini dal naufragio deve salire fino al massimo livello possibile. «Speriamo che Meloni torni presto in questa aula», ha detto la segretaria. 

Lei, la presidente del Consiglio, sapeva perfettamente cosa sarebbe successo nel pomeriggio al Senato e ha continuato nella sua tattica di non mettersi di punta contro l’avversaria, non ingaggiare lo scontro diretto. Facendo proprie le parole di Schlein, fa finta di valorizzare la novità nel mondo dei Democratici. In effetti la depotenzia, la fa cuocere nel suo brodo, evita di legittimare l’avversaria come l’anti-Meloni. Pensa che Elly e compagni siano fuori di testa, in stato confusionale con l’accusa di strage di Stato. Almeno ci prova a delegittimare l’altra Eva, avvolgerla in un 8 marzo rosa. Aspetta il momento opportuno per incontrala a Palazzo Chigi, per fare una bella photo opportunity delle donne che ce l’hanno fatta e non si sbranano come fanno i maschi. Anzi dovrebbero collaborare. 

Non è detto che il giochetto le riesca a lungo. Forse sottovaluta Schlein, che deve rilanciare il partito su un solco radicale. E non è nemmeno gradevole se la quinta davanti cui si recita a soggetto è quella spiaggia di croci calabrese. Con molte cose ancora da chiarire.

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