D’accordo. Ricominciamo. Ho scritto e cancellato le parole su questo foglio almeno una decina di volte. Ma come si fa a mettere nero su bianco un pezzo di vita? Ci sto pensando da quando ho proposto di raccontare qui la mia storia. Di solito non funziona così. Noi raccontiamo le storie di altri, non le nostre personali. Certo, il cuore ce lo mettiamo lo stesso e le emozioni entrano tra le parole, ma non è la stessa cosa. Raccontare di altri può anche essere facile, raccontare di noi non lo è mai.
Quando avevo 16 anni sono diventata anoressica. Partiamo subito con il nocciolo della questione, affrontiamo il toro per le corna. Non fraintendetemi: non è che negli anni non ne abbia parlato, ma scriverlo è tutt’altra cosa.
La mia è una storia simile a tante altre. Quella di una bambina sviluppatasi troppo in fretta, con il seno che, a undici anni, sporgeva dalla maglietta e qualche chilo morbido avvolto nei fianchi e nella pancia. Ero timida, goffa e priva della malizia tipica di quell’età. Non mi piacevo. Odiavo il mio corpo e cercavo di dissimularlo con altri pezzi di me: studiavo, mi dedicavo a essere una brava figlia e l’amica rassicurante per tutti. Credo che, all’epoca, mi bastasse. Cercavo di eccellere laddove le mie mancanze diventavano un limite.
Mi piaceva mangiare, ma penso fosse semplicemente perché, a casa, ero quella che non faceva storie se per pranzo c’erano i broccoli. Mangiavo di tutto, e tanto. Credo di aver collezionato una quantità pressoché infinita di incarti di Tegolini dietro la credenza del soggiorno. Il mio mangiare era una sorta di rivincita nei confronti del resto del mondo. Gli altri bambini erano bravi nello sport, erano svegli. Io ero una bambina ubbidiente, che non faceva i capricci a tavola.
Ho passato così buona parte della vita. Al liceo ero felice quando avevo greco e latino, ma l’ora di educazione fisica si trasformava in una tortura senza fine. Non mi sentivo all’altezza. Mai. E pensavo che, in qualche modo, senza il mio corpo appiccicato addosso, la mia vita sarebbe stata perfetta.
La svolta è arrivata, quindi, a 16 anni. Mi sono innamorata, per la prima volta, e quando è finita, ho reagito nell’unico modo possibile in quel momento. Ho smesso di mangiare. Poco alla volta, ma ho smesso. Ecco, l’anoressia è entrata così nella mia vita. In punta di piedi. Con una dieta fai da te e la forza che trovavo, giorno dopo giorno, di rifiutare il cibo, modellando il mio corpo a piacimento.
Lo ricordo bene quel periodo. Le giornate al supermercato a contare le calorie degli alimenti sugli scaffali. La bilancia che mi aspettava ogni mattina in bagno. Le guance scavate. Le mie amiche, che non dicevano nulla, ma si adeguavano a mangiare quello che mangiavo io quando stavamo insieme («È buona la pizza marinara, senza mozzarella, senza nulla, ma è buonissima»). Ricordo me stessa allo specchio mentre guardavo le mie ossa con orgoglio e piacere. Ricordo che mi addormentavo spesso sui banchi di scuola, con un dolcissimo professore che cercava di convincermi a comprare il mio panino preferito per la ricreazione. E anche le lacrime dei miei genitori quando non sono più riuscita ad alzarmi dal letto: mia madre avrebbe voluto portarmi in ospedale, mio padre piangeva e mi supplicava di reagire.
L’anoressia mi ha cambiato la vita. Me l’ha stravolta e mi ha plasmato, fino a diventare quella che sono oggi. L’anoressia me la porto sempre appresso. Dentro di me, come fosse un monito o un avvertimento. Anche ora che il cibo è entrato nella mia quotidianità. Ecco, se l’anoressia mi ha cambiato la vita, il cibo me l’ha salvata. Ed è quasi ironico, a pensarci bene. Perché, volente o nolente, penso al cibo da quando sono nata. Prima in un rapporto di attrazione tossico e ora come elemento salvifico. Prima contavo le calorie, ora racconto il gusto e le storie che ci sono dietro.
Dall’anoressia si può uscire? Si può avere una relazione sana con il cibo e con il proprio corpo? Non sono sicuramente la persona più indicata per dare la risposta. Io mi sono accettata e mi sono amata, nonostante ci siano periodi (e questo ad esempio è uno di questi) in cui non mi piaccio e spendo soldi e fatica in allenamenti online e creme dimagranti e anticellulite.
Quindi, no, non lo so se esista davvero una risposta. E queste righe sono state solo un modo di condivisione. Perché non ci sono modelli ispirazionali da seguire, lezioni da impartire o esempi da portare. Ci sono solo le storie. Diverse e simili. Che si toccano e si nutrono le une dalle altre.
L’ho voluto fare oggi, che è la giornata dedicata ai disturbi sui comportamenti alimentari, perché in realtà ancora tanto c’è da fare e tanto si può fare. Nelle cure, nel supporto e nelle strutture. E anche nella cultura. Perché forse bisogna riportare l’attenzione al cibo per quello che è: un modo di nutrirsi, di vivere la socialità, di amare la terra e noi stessi. Al di là di quello che il mondo vuole da noi, al di là degli schermi dello smartphone che ci riportano, ancora oggi, immagini fittizie e stereotipate e, al tempo stesso, svendono il cibo come food porn (immagine che non sopporto, svilente e superficiale).
Ecco, forse quello che ho voluto raccontare oggi è semplicemente questo: una storia d’amore.